Non ho mai messo piede in tribunale.
Pesco nella memoria lo spezzone di un servizio visto alla tivù o la scena di un vecchio telefilm.
Sono imputato. Tutti lo siamo prima o poi. L’ineluttabilità della circostanza non smorza l’apprensione. M’infastidisce lo sforzo d’immaginare l’aula, le suppellettili, persino il carattere della scritta che si legge sul fondo: la legge è uguale per tutti. Su un lato della stanza si aprono finestre alte fino al soffitto. Evidente che ho scelto il set di Perry Mason.
Le finiture in ciliegio e le tende verdi oliva stonano con l’abito a fiori, da messa della domenica, che veste il giudice.
Tiro un sospiro di sollievo. Che una donna debba giudicarmi mi consola. Le donne sanno essere comprensive. Del resto cosa importa? Ormai è finita.
Sfilano i testimoni.
La prima è una ragazzina che mi piaceva alle elementari. Quando mi rivolse la parola sulla strada di casa, scappai arrossendo. Poi c’è la testa riccia di un ragazzetto in bicicletta. Lo vedevo scorrazzare dal balcone. Sembrava uscito da un fumetto.
A un certo punto la porta si spalanca ed entra lei. Doveva essere la donna della mia vita. Ora ha i capelli bianchi, il corpo appesantito, i seni penduli, eppure gli occhi verdi sono quelli luminosi dei vent’anni. Scuote la testa mentre mi osserva e io le dico: «Mi aspettavo che comparissi più in là, che si seguisse un ordine cronologico». Un’alzata di spalle e va via per il corridoio che si apre tra le sedie, tutte vuote.
Qui incrocia un vecchio, stempiato e con un’ombra di doppio mento. Del giovane belloccio che era resta solo la postura. I due si salutano.
Capisco il disegno. Li ho amati tutti e non ne ho amato nessuno.
Li vedo passare. Occhi severi, pietosi, obliqui, di scherno. Sono estenuato. La processione si dilegua.
Il giudice con voce ferma mi chiede: «Cosa ha da dire a sua discolpa?»
«Ho perso tempo, ammetto»
«L’importante è che non l’abbia sprecato», dice.
Mi assolvo ed esco in strada. Non c’è nessuno. Sono spariti tutti. Sono solo.