Immaginate una traversata “coast to coast” dall’Atlantico al Pacifico, quella che la mia generazione ha sempre sognato di fare, alla scoperta della vera America. Immaginatela però non come l’allucinata cavalcata di Jack Kerouac e del suo amico Neal Cassady, on the road sulla Route 66 degli anni cinquanta, ma come un viaggio metodico, puntiglioso, in compagnia di due signori ricchi di sapere e di informazioni su un argomento ancora e più che mai centrale nella Storia politica d’Italia: l’epopea del Pci, nato Partito Comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a Livorno, e morto (forse) settant’anni esatti dopo, il 3 febbraio 1991, a Rimini.
La nostra traversata è dunque un libro, intitolato “Comunisti a modo nostro”, appena uscito per Marsilio Editore.
I due sapienti sono Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci purtroppo deceduto all’età di novantasei anni nei giorni immediatamente precedenti alla pubblicazione del volume, e Claudio Petruccioli, da sempre anima liberal del partito, ma guai a chiamarlo eretico, perché si arrabbia.
Ci si potrebbe chiedere: perché scrivere questo manuale su un partito che non esiste più da trent’anni? La risposta è tutta in quel “forse” che ho messo tra parentesi. Infatti il concetto, mai dichiarato apertamente per il palpabile, rigoroso candore che permea di fascino l’intero libro, è che il Pci non sia in realtà mai morto. Che abbia utilizzato la maestria che solo l’ambigua illuminazione della Fede può regalare, per campare cent’anni e oltre.
Cent’anni di lotte, conquiste, tragedie e traversie di ogni genere, di scissioni e alleanze impossibili, tentate più col nemico naturale della prima Repubblica, la Democrazia Cristiana, che con il fratello separato alla nascita, il Psi.
Cent’anni di solitudine spesi per approdare alla festa di compleanno, in un 2021 che avrebbe proprio bisogno di una dose massiccia di realismo magico per venire a capo di se stesso.
La parola, vorrei dire il mantra, che ha accompagnato il Partito Comunista Italiano fin dalla nascita è “ambiguità”. Il suo essere fedele alla Rivoluzione d’Ottobre ma anche, e sinceramente, alla democrazia. L’ambizione di voler perseguire ad ogni costo la costruzione del socialismo senza spiegare bene cosa fosse, epifanìa misteriosa, quasi stregonesca nel paese più diviso dell’occidente capitalista. Capacità di galleggiare da sapientissimo marinaio sulle onde anomale di una dipendenza ideologica, mai veramente risolta, dal mito dell’Unione Sovietica, orgoglio e condanna. L’ambiguità evocata con lieve naturalezza da Macaluso e Petruccioli diventa, nel corso del tempo e con esasperante lentezza, “diversità”, voglia matta di essere “di lotta e di governo” come diceva Togliatti, declinata fatalmente in un destino cinico e baro di eterna opposizione.
Tutto questo e molto altro troverete in “Comunisti a modo nostro”, raccontato con passione e animo puro da due anziani bambini del passato millennio, duellanti di fioretto disturbati e quasi sorpresi dall’influenza perniciosamente decisiva dei circoli di potere occulti (finanza, magistratura deviata, servizi segreti, logge segrete) che incombe sulle vicende del Belpaese e su un andamento reale, effettuale delle cose non previsto dalle regole di un’acerrima ma leale competizione politica.
Resta invece inaspettatamente poco indagata in una trattazione così puntuale e godibile la questione legata alla sovranità limitata italiana, scaturita dall’assetto internazionale deciso a Yalta nel 1945 e non completamente cancellata dalla caduta del muro di Berlino.
Rimane dunque senza risposta, ancora una volta, la domanda: qual è stato il livello di consapevolezza reale, da parte dei gruppi dirigenti succedutisi in un così lungo arco di tempo, del fatto che a un partito comunista se non altro di nome l’Occidente avrebbe ineluttabilmente riservato la lotta e mai il governo? Risolvere questo dubbio sarebbe ancora oggi importante. Perché l’ambiguità, comunque la si voglia declinare, non sarà mai un valore.
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