Due ore

Nella Bulgaria comunista della mia infanzia, la corrente viaggiava davvero a ritmo alternato. Si restava privi della luce elettrica per due ore piene, ogni quattro. Si spegnevano interi quartieri, case, frigoriferi, persone… no, persone no. Loro si univano per stare insieme. Noi bambini trovavamo una quiete quasi assurda, che non si riusciva a percepire nelle ore “sì”. Certo, le tende erano esposte ad alto rischio d’incendio domestico. Le strade erano troppo oscure e bisognava sviluppare il gatto dentro di sé, per intuire i buchi e altri vari ostacoli. E poi, come si leggeva bene a lume di candela! Intere pagine fluivano dentro la testa, curiosa e affamata di sapere cosa succedeva dopo, e dopo ancora. Si poteva fare poco o di più. Dipendeva solo dalla fantasia e dall’intero mondo che uno sviluppava dentro di sé. Tanto, due ore erano. Precise. E quando tutto si illuminava, desiderato tanto ma sempre sorprendente, svaniva la magia. Le persone si salutavano, le candele non erano più così dominanti e sfuggenti. Le ombre si nascondevano chissà dove, gli occhi facevano male. Il televisore e il frigorifero riprendevano a lavorare, papà smetteva di suonare al piano, mamma andava a cucinare. Ma nella casa rimaneva l’irresistibile odore di cera. E il sottile profumo dei miei sogni racchiusi nel libro, dove aspettavano di essere riaperti nelle prossime due ore “no”.
L’interruttore accanto alla mia porta era minuscolo e impotente davanti a tanto splendore.

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