A Leibniz non bastava che due più due facesse solo quattro, incontrovertibilmente quattro. Aveva capito la solitudine degli uomini, ma anche quella di Dio, premuto dalla necessità di far quadrare i conti di quel tutto che accade, sempre difficile da dire e pensare. Noi, il suo universo, le piante, le cose, siamo soli, determinati, necessari ma anche unici, non riducibili a numeri e grandezze soltanto.
Nessun vivente sarà toccato dalla stessa pioggia e mai dallo stesso tempo.
Anche gli insulti saranno diversi per ciascuno. Nessuno vivrà mai una vita uguale all’altra. Nel bene, nel male, nella gloria, nella caduta o nella miseria.
Non un insetto è uguale ad un altro, due fili della medesima erba resteranno diseguali tra loro. La brina che sopra loro ricama sarà fatta di infiniti cristalli, che la legge della fisica condensa, ma ognuno sempre diverso dall’altro.
Leibniz morì poverissimo in disconosciuto abbandono e accusato di plagio nei confronti dell’astro di Newton, che in quel tempo lontano, più di tutti brillava.
La solitudine dei numeri primi.