Due storie sporche

Difficile trovare una definizione per il “genere” Bennett, come lo è peraltro per la scintillante Muriel Spark. In Italia non esiste niente di simile.
“Humor inglese” potrei dire, come diceva mia nonna, ma dubito che si riferisse a libri del genere. Una metafora possibile potrebbe nascere da un mix di Full Monty e di Monty Python. Forse. Quel che colpisce di Bennett è la sua carnale ironia. Il desiderio, declinato non in una versione sublime ma grottesca è la sua forza d’urto, inesorabilmente spiazzante. L’amour fou, che più che altro è un sessomatto, si incarna in corpi imperfetti e moralmente ambigui creando articolazioni umoristiche, anche nel senso di “ricche di umori”, e sensuali a dispetto di ogni estetica canonica. Si aprono mondi di trovate torbide e geniali.
Fra il puro e l’impuro Bennett sceglie sempre la seconda opzione: la tentazione impera. Vi si cede sempre, come nel caso della signora Donaldson, che arrotonda la pensione del defunto marito facendo l’attrice per casi clinici simulati in un ospedale e affittando camere a studenti. Il ruolo dell’affittacamere prende poi un aspetto voyeuristico, che rivificherà la sua esistenza alla radice, in un’escalation di visioni e pratiche esaltanti.
Betty invece, rovescerà il suo impatanato destino di bruttina-ma-ricca sposata a un ficone occultamente gay con una marcia trionfale fra e-commerce e digressioni sessuali che la renderà decisamente dominante. Il tutto in una rete familiare di rapporti occulti segnati dal libero scambio sessuale.
Nella Londra della crisi economica la teoria del libero mercato si radicalizza, si libera da ogni freno e trionfa sui rapporti e sugli orientamenti sessuali, con esiti non scontati, che le donne riescono in qualche modo a fare propri:
– In definitiva c’è un mare di segreti. Betty ne è la più ricca, come è ricca di tutto il resto. Ciò nonostante ognuno, se non proprio felice, almeno non è infelice. E tira avanti.

Alan Bennett, Due storie sporche, Adelphi 2011

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