Con mio padre facevamo favole, poesie e disegni. Aveva inventato (o io credevo avesse inventato, e questo conta) il ‘disegno cieco’. Uno si chiudeva gli occhi o si bendava, con un colore in mano, davanti al foglio bianco, e l’altro gli dettava una scena piena di particolari, facendoglieli aggiungere man mano che passava di scena in scena, da un lato all’altro della pagina. Il disegnatore era costretto a orientarsi col tatto, a calcolare distanze a fior di dita, e quando il gioco finiva era ridicolo scoprire dove erano finiti il cappello da alpino, la pipa, la coda della tigre o un comignolo.
Ricordo tutti gli insegnamenti che mi ha dato esplicitamente: prima dei dieci anni sapevo contare un minuto preciso. Memorizzare elenchi di 50, 100, 150 parole e ripeterli al contrario. Accarezzare i gatti. Programmare in C e usare l’autoCAD. Andare sott’acqua spingendo con la testa fino al fondo sabbioso, e appiattirsi senza risalire. Andare in spiaggia, la sera, per vedere il mare in amore.
Poi, mentre cercavo di farmi addolcire da tali bellezze, mi spiegava che non era amore, ma luminescenza di alghe morenti. Che un passerotto visto nella pubblicità con un fazzolettino in bocca non era poesia, erano due gocce di colla dentro il becco. Che intorno al grande schermo dove guardavo a bocca aperta due che si innamoravano, c’erano camere da presa, persone che urlavano ordini, e quei due forse si odiavano.
Ricordo anche le cose non dette. Mi ha insegnato a non credere in niente, a giocare ai cavalli, a godermi i piaceri della vita.
Se lo rivedessi, gli direi che le prime due le ho imparate.