QUELLO CHE DIANA MI HA INSEGNATO
Non mi ha mai insegnato
__ad apprezzare il caffè vero
né i romanzi francesi
né gli oscuri poeti maschi
né le migliorie del suo terrazzo
o le bugie.
Mi ha insegnato
___ad abbassare la guardia
chiudere gli occhi
_____e lasciarmi andare
Mi ha insegnato
_____il piacere.
Quello che le femmine sanno
quello che le femmine riescono a fare.
Glielo debbo.
Una poesia di Dorothy Porter letta da Anna Toscano
Dorothy Porter mette in fila poesie talvolta esilaranti, a volte truculente, altre volte ciniche, spesso erotiche, in cui ci si imbatte in cadaveri, corpi, scene di sesso, scale, libri, strade, poesia, macchine. Leggere le sue poesie singolarmente apre al baratro del detto, un luogo dove il non detto non esiste e il detto si trasforma in concretezza spietata e allucinata. Leggere le sue poesie una dopo l’altra apre a storie concatenate, a investigazioni, a discorsi interrotti, a telefonate che iniziano e finiscono molte poesie dopo. È una lirica che si posa sulle cose come una lente di ingrandimento, i corpi femminili hanno mani grandi e dita lunghe, seni scoperti e bocche in evidenza, ma soprattutto hanno parole chiare e ferme in questi versi. Le donne da amare si legano verso dopo verso alla poesia che Dorothy finge di odiare ma rincorrere, diviene un amalgama tra parole e corpi, passando bar, bestemmie e autostrade. Una dopo l’altra sono capitoli di un romanzo giallo, dove la prosa lascia il passo al verso senza temere resa diseguale. La caccia è a un colpevole di omicidio, ma anche l’accusa di falsità grava a ogni rigo – ”Ok Medusa / tramuta tutti questi stronzi / in pietra / tramuta quei poeti fasulli / in marmo / scalinata verso il nulla / […]” – nella ricerca spasmodica di dire che amore non è solo parlare, al di là di ogni licenza poetica.
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Dorothy Porter, La maschera di scimmia, Roma, Fandango, 1999