L’esclusione in corsa del trapper Tony Effe dal capodanno di Roma, al netto della circostanza in sé, ci offre importanti spunti di riflessione.
I fatti sono noti: prima lo chiamano, probabilmente senza avere ma letto i suoi testi ma dopo aver semplicemente visto i suoi follower, poi arrivano le critiche delle donne del centrosinistra al sindaco Gualtieri e lo si mette istantaneamente alla porta con l’accusa di sessismo, con tutte le conseguenze che conosciamo e l’accusa di dilettantismo a carico dell’amministrazione capitolina.
Una così imbarazzante vicenda, tuttavia, ci permette qualche considerazione su ciò che le diverse generazioni di artisti, musicisti nel caso specifico, hanno raccontato e cantato nei propri testi e le reazioni indignate di certa parte della società, politica inclusa, che spesso nascondono profonde ipocrisie e fragilità.
Quei testi, spesso forti e volgari, possono essere letti con il piglio superficiale dell’inquisitore verso l’eretico oppure chiedendosi quanto, di ciò che viene cantato, altro non è che una fotografia realistica di parte del mondo giovanile, una narrazione in musica di una verità che la nostra e le generazioni precedenti, non riescono a vedere o, meglio, non vogliono ammettere.
Accettare questa seconda interpretazione significa assumersi le proprie responsabilità di adulti, genitori o classi dirigenti, per non riuscire a contrastare quei disvalori che ogni giorno contagiano i nostri giovani, nelle parole e nei fatti. Una tale consapevolezza rappresenterebbe un importante punto di partenza nel provare a limitarne la diffusione.
Machismo, rigurgiti estremisti di destra o sinistra che siano, bullismo, scarsa considerazione per la vita propria e degli altri, incapacità di frenare le pulsioni sessuali, addirittura autofilmarsi mentre si compiono violenze: tutto questo non nasce dalle canzoni dei vari Tony Effe ma, attraverso di esse, ci viene sbattuto in faccia come uno schiaffo per svegliarci da quell’indifferenza ipocrita che ha nel romanzo del ’76 di Cerami ,“Un borghese piccolo piccolo”, la sua massima espressione.
Viceversa, si può scegliere la strada più comoda, quella della condanna, con la conseguente messa all’indice per tutto ciò che può mettere in discussione quella narrazione che ciascuno di noi prova a creare tra sé e il resto del mondo e, così, lanciarci il messaggio che quelle parole, prima che influenzare, sono a loro volta frutto di ciò che anche le nostre e i nostri figli possono dire e fare, un grimaldello in grado di frantumare ogni nostra barriera protettiva.
Pensare che siano Tony Effe e colleghi a istigare i giovani, come fossero pifferai di Preston, rappresenta plasticamente l’evitamento del reale problema del disagio giovanile, tanto strombazzato nelle varie filippiche a mezzo stampa o social ma sul quale, ad oggi, poco o nulla si è fatto.
Prima che dei potenziali danni causati dai testi dei vari Tony Effe, allora, dovremmo parlare delle carenze inaccettabili di investimenti per l’educazione all’affettività, alla differenza di genere, per potenziare l’educazione civica, per la prevenzione all’uso di droghe e alcol, all’uso consapevole dei social. Occorrerebbe stressare il governo perché metta al primo posto la salute fisica e mentale delle nostre e dei nostri figli, introducendo figure come lo psicologo scolastico e finanziando programmi da realizzare nei luoghi di aggregazione giovanile, coinvolgendo gli operatori di settore, portando servizi nelle periferie degradate della città e dando priorità agli investimenti per la formazione universitaria, residenze incluse, come anche per l’avviamento al mondo del lavoro: in poche parole, accompagnare i nostri giovani nei momenti più difficili e restituire loro fiducia in se stessi e nel futuro.
Un simile e netto cambio di paradigma potrebbe convincere i nostri giovani a ricercare altri punti di riferimento, anche musicali, e noi a tracciare una linea di demarcazione tra chi racconta la realtà che lo circonda e quelli che, invece, nei loro testi vorrebbero imporre i propri modelli da imitare.