Lev Tolstoj era un veggente che conosceva l’animo umano, ma aspirava a diventare profeta e cercava un deserto dove predicare: la steppa infinita in cui perdersi per unirsi al Tutto che era Dio.
In Anna Karenina aveva esplorato il cuore di una donna che antepone la passione a ogni convenzione sociale; si era calato nei cunicoli bui della gelosia omicida in Sonata a Kreutzer; aveva guardato con gli occhi del principe Aleksej il cielo alto sul campo di battaglia, scrivendo la pagina più intensa di Guerra e Pace.
La notte prima di fuggire lasciò sul tavolo dello studio un libro aperto a metà, un romanzo non suo. Aveva deciso da tempo di abbandonare i sentieri dell’Arte, di rinunciare a ogni parola che potesse smuovere un sentimento, se non quello della pietà per il prossimo, della fratellanza che si sarebbe realizzata di lì a qualche anno sotto il segno della rivoluzione.
Sua moglie trovò il libro sul tavolo, I Fratelli Karamazov, e capì prima ancora di aver letto le poche righe che il vecchio aveva scritto in una missiva destinata a lei sola.
Il conte Lev Tolstoj, ormai in fin di vita, lasciava il tetto coniugale, la famiglia, i libri, in fuga verso la steppa, verso la sospirata terra delle beatitudini.
Il treno sferragliava nella neve e nel fango, poi si arrestò. E anche il mondo si fermò, trattenne il fiato in attesa che lo scrittore si spegnesse nella sperduta stazione di Astapovo, diventata improvvisamente una nuova Betlemme o un nuovo Golgota, giacché nascita e morte erano tornate a essere una sola cosa.