Papà, ateo, allestiva un presepe gigantesco, in memoria di una tradizione della sua cattolicissima famiglia. Per intendere le dimensioni dell’insieme, la capanna era costituita da una sedia, vecchia ma ancora fungibile, tutt’intorno montagnelle di cartapesta preparata con giornali – L’Unità, più sottile e malleabile per i paesaggi, Rinascita, più spessa e resistente, per le strutture portanti – e colla fatta con la farina. L’intera impalcatura veniva infine foderata col muschio fresco che mamma riceveva dalle alunne campagnole.
Tutto questo per ospitare le vere protagoniste, ‘e pcurell’, che papà comprava in una crescente urgenza di varietà di forme,sfumature di colore, posture, gregarietà o spiccata singolarità per noi del tutto incomprensibile (all’occhio profano le pecore sono equivalenti, un po’come le mucche dell’Assoluto schellinghiano). Alla domanda discreta, ma inequivoca di mamma: “Vitto’,ancora pecore..?“, lui rispondeva soave, ma incorruttibile: “So’ bell’ e’pcurell’”.
Fino al giorno di Natale il presepe ovinocentrico veniva arricchito di nuove protagoniste: pochissimi gli umani, rispetto al popolo dominante delle pecore. La evidente asimmetria veniva motivata dall’artefice con argomentazioni del tutto realistiche :” Sono pastori, ciascuno ha il suo gregge”. Non avremmo forse capito gli allettamenti più intimi e più metafisici che quelle sinergie animali suggerivano, nel loro pacifico disporsi alla vita e all’attesa, al suo animo ancora oscurato da guerra , resistenza, allarmi.
Oggi io, nei miei giretti per San Gregorio Armeno, guardo con affetto e sollecitudine alle pecore, ne ipotizzo disposizione e percorsi eventuali nel mio presepe inesistente – mai ho tentato di replicare l’impresa – e mi ritrovo uno sguardo allenato a cogliere mancanze, individuare alternative possibili, creare raggruppamenti più soddisfacenti di quelli proposti da chi delle pecore, del loro mondo, delle loro virtù taumaturgiche, non ha capito ancora niente.