Per l’anagrafe aveva sessant’anni, ma la sua vita si era fermata nel ‘74, quando di anni ne aveva ventidue. Si chiamava Sylvia Kristel. Era bellissima. Faceva l’attrice. Anche per noi, che allora eravamo troppo piccoli per vederla al cinema, le sue immagini divennero oggetti di oscuro desiderio. Le cercavamo su Panorama, sull’Espresso, o sulla pagina degli spettacoli del Corriere della Sera, dove c’era la locandina del suo film: Emmanuelle. Oggi un film del genere farebbe sorridere, ma allora, nello stesso anno in cui in Italia si teneva il referendum sul divorzio, aveva tutti gli elementi per creare scandalo ed essere un successo: una donna giovane e sessualmente libera; l’esotismo della Thailandia; le “lezioni d’amore” che un uomo maturo impartisce a una ragazza; il sesso in aeroplano e quello orale. Sembrano i simboli dell’emancipazione. In realtà, tutta la libertà della protagonista è giocata all’interno di un immaginario erotico puramente maschile. L’ambiente i cui si svolge la vicenda non ha nulla di rivoluzionario, ma, al contrario, è borghese e stereotipato, legato a rigide regole di comportamento, quasi come quelle imposte dai quattro Signori ai comprimari delle 120 giornate di Sodoma. Così rigide che nemmeno la bellezza, per Emmanuelle, è una chance, ma solo un privilegio che la incatena a un ruolo già scritto: quello della donna che vive soltanto nello sguardo dell’uomo. Lo stesso privilegio che ha incatenato per trentotto anni la sua interprete: che aveva un nome, ma resterà per sempre, soltanto, Emmanuelle. (Stefano Bandera)
La vetrina
Si presentò come il marito. Forse non aveva altra identità. O, in quel momento, non gli interessava averne altra. In maniche di camicia. I capelli fintamente ribelli. Le scarpe lucide. Una valigetta di cuoio. Cercava soldi. Un finanziamento per certi film. Spinti, certo. Altro, lei, non sapeva fare. Erotici, ma di gradazione differente. Una versione per il video, una più casta per la TV. Riuscivo a immaginarmi il clamore del grande ritorno sulla scena, a vent’anni dal mito? Dalla valigetta estrasse un portfolio, me lo mise davanti, lo aprì. Come se non mi ricordassi di lei. Foto di scena di vent’anni prima. Altre recenti, per mostrare che il tempo era stato galantuomo. Stava vendendo un prodotto, nient’altro. Lo capii mentre sfogliava le immagini e ne magnificava le qualità.
Solo che, quel prodotto, era sua moglie.
Sua moglie si chiamava Sylvia Kristel. (Guido Pugnetti)