Estrella

Mia madre aveva comprato dagli zingari due brocche di rame, col manico e il becco dorati, per andare a prender l’acqua alla fontana del paese. Le altre donne portavano le brocche tradizionali, di coccio screziato e pesante. Mia madre arrivava leggera coi due gioielli di metallo rosso che brillavano al sole. Sopra la fontana c’era un’aquila di bronzo, con le ali raccolte e il becco in aria, l’occhio torvo e gli artigli chiusi su un fascio littorio. Era l’unico monumento moderno del paese, sulla strada maestra che portava alla piazza.
Al bivio per il cimitero c’era una grande edicola di mattoni rossi, a forma di trittico barocco con tre statue di santi, e lì davanti si fermavano tutte le nostre processioni funebri e festive. A ridosso del muro c’era la minuscola bottega del ciabattino, e appese in bella vista alle pareti stavano le suole di tutte le piante dei piedi del contado, col nome del proprietario scarabocchiato con un carboncino sul cuoio: Gigin, Zi G’vann, Ida, Colomba, Abo, Terzo, Germana… Dopo il passaggio del fronte, parecchie suole erano state riciclate cancellando il nome del proprietario deceduto.
Un giorno d’ottobre, mia madre mi accompagnò per la prima volta a scuola. Mi aveva cucito un grembiulino nero, con gli sbuffi alle maniche, e un grande colletto bianco, ricamato, con un fiocco rosa. Non mi piaceva la divisa nera, come non mi era piaciuta quella a scacchi rosa dell’asilo. Non mi piaceva stare seduta per ore nel banco, costretta in una stanza con bambine sconosciute che urlavano e si tiravano i capelli. Io ero cresciuta nei campi, sola con me stessa e col mio cane Bill. Ero la bambina più rustica e timida del paese. Odiavo attraversare la piazza della chiesa, la domenica, con la gente vestita a festa che ti fissava senza pudore. Ora dovevo attraversare quella piazza ogni mattina per andare alla scuola elementare del Castello, di là dal ponte.
La mia unica gioia era la cartella nuova di pelle, morbida e odorosa. Mentre camminavo con gli occhi a terra, sentivo rotolare le penne dentro l’astuccio di legno. Scrivevamo allora con i pennini, quelli panciuti e quelli snelli e traforati come piccole torri. Il calamaio di vetro era inserito in una cavità a destra del banco, ed era colmo di inchiostro nero. Dovevamo fare attenzione a sederci e alzarci con garbo, per non rovesciare l’inchiostro. Ciò non tratteneva le bambine più agitate, ma l’atmosfera era senz’altro calma rispetto al caos dell’asilo.
Io amavo il silenzio della campagna, e cominciai ad apprezzare il silenzio della classe, la polvere di gesso, l’odore d’inchiostro, i ferri del mestiere, quaderni, carta assorbente. Tornavo a casa fiera, con le dita macchiate di nero e il grembiule imbiancato di gesso, come un muratore che abbia fatto giornata. Amavo più di ogni altra cosa la maestria del pennino, saper farlo scorrere sulle righe del quaderno senza gocce e sbavature d’inchiostro. Le lettere dell’alfabeto erano segni misteriosi, e io mi sentivo come il prete sull’altare col messale in latino. Non vedevo l’ora di poter leggere da sola i libretti di fiabe che la zia mi aveva portato dalla città. La nonna me li leggeva e rileggeva la sera accanto al fuoco del camino, e quando si stancava, prendevo il libretto tra le mie piccole mani e fingevo di leggere, seguendo la scrittura col dito e ripetendo le frasi che ormai sapevo a memoria.
Dopo la guerra, il paese non aveva ancora costruito una scuola. Le stanze del Castello medievale, in cui eravamo temporaneamente ospiti, erano fredde e buie. Dalle feritoie si vedeva il fiume, il ponte e i campi a nord del paese. Quando uscivamo da quelle spesse mura a mezzogiorno, scendevamo come caprette in fuga giù per le ampie scale che portavano al ponte. Qui ci aspettavano i maschi delle altre classi per farci i dispetti. Io avevo un paio di trecce nere, ed ero il bersaglio preferito perché, anche se fuggivo, qualcuno riusciva a tirarmele e a strapparmi i fiocchetti legati alle estremità. Quei fiocchi costavano cari al negozio di mercerie della piazza e, ogni volta che ne perdevo uno, mia madre diceva che sarebbe venuta a prendermi a scuola. Data l’ora critica, in cui gli uomini tornavano dai campi per pranzare, questo suo proposito non si realizzava mai. Decidemmo di addestrare il cane ad accompagnarmi fino al ponte per poi tornare a prendermi.
Bill era un pastore tedesco di pelo scuro, con le zampe bianche e una bellissima coda tutta bianca, tranne la nervatura che dal dorso scendeva come una pennellata nera. Era una coda così lunga che Bill la portava arricciata all’indietro e quando mi vedeva uscire sull’aia, dondolava quel punto interrogativo di qua e di là e guaiva come un cucciolo. Aveva il muso sempre puntato in aria o in terra ad annusare, e mi guardava con gli occhi attenti, per capire se ero in vena di giocare. Non ricordo che mi abbia mai morso, mentre con gli estranei era feroce, attaccava gettandosi in avanti con tutto il suo peso, a denti scoperti, con latrati terribili. Portai il mio compagno di giochi in paese con me la mattina. All’imbocco del ponte gli facevo segno di tornare a casa e all’ora di pranzo lo ritrovavo lì, mandato da mia madre. Quando i ragazzacci si avvicinavano per tirarmi le trecce, Bill li spaventava a morte con un solo latrato, e io attraversavo la piazza a testa alta, con la guardia del corpo.
Abitavamo fuori dal paese, e questa distanza mi impediva di giocare con altre bambine della mia età. Io non brillavo nelle grazie che rendono socievole un bambino, ero abituata a compagni di gioco silenziosi e leali, il cane, il gatto, le galline, i conigli. Le bambine a scuola facevano amicizia, spettegolavano, più che altro litigavano, mentre io me ne stavo in disparte, senza alcuna curiosità di conoscerle. Gli animali e le piante non davano spintoni, non erano prepotenti, ma gentili e rispettosi. Per via di questo mio carattere scontroso, nessuno venne a sedersi al primo banco con me. Ero felice di questo privilegio e mi guardai bene dal far qualcosa che risultasse come un invito per le mie compagne.
Una mattina di novembre, col sole ancora caldo e il vento che pungeva sotto il grembiule, arrivai in classe e trovai una bambina nuova seduta nel mio banco. La maestra la presentò a tutta la classe. Non aveva grembiule, ma un vestitino misero e scolorito. La sua pelle era così scura che pareva sporca. Si chiamava Estrella, nome mai sentito prima, ed era arrivata in paese con la carovana degli zingari.
La classe era così eccitata dalla novità che la maestra non riuscì più a farsi ascoltare per un po’. Io guardavo la nuova compagna di banco con la mia solita diffidenza, ma mi accorsi che Estrella era più scontrosa di me. Se ne stava curva sulla sua parte di banco, gli occhi bassi, impaurita come un animale in gabbia. Fu lei, Estrella, il primo essere umano per cui provai affetto fuori dal cerchio della mia famiglia. Aveva grandi occhi neri, ombrosi come quelli di un cavallo. Era così selvatica che non mi sarei stupita se, invece di parlare, avesse nitrito. Era diversa dalle altre bambine. Non parlava mai. Solo a me, pian piano, cominciò a rispondere con cenni della testa. Aveva lunghi riccioli neri, sempre aggrovigliati e spettinati e, guardandola bene da vicino, sì, aveva le guance sporche, uno sporco così antico che era ormai tutt’uno con la pelle.
Consideravo Estrella un animale superiore, perché Bill di certo non mi aveva mai guardato così, con tanta intensità e smarrimento. Negli intervalli le stavo addosso e le chiedevo di raccontarmi qualcosa di lei, ma Estrella non sapeva che dire, e anch’io, se me l’avesse chiesto, cosa potevo dirle di me? Le mostrai il cane all’uscita della scuola e – privilegio esclusivo – glielo lasciai accarezzare. Lei mi invitò ad andare a vederla quella domenica al circo. La mattina dopo infilò nella mia cartella due biglietti omaggio.
Aspettai la domenica con una frenesia mai provata prima, neppure la notte che era nato il vitellino nella nostra stalla. Giocavamo insieme, io e Bill, ci scambiavamo le coccole, ma dopo un po’ ci stancavamo e ognuno tornava alla sua tana. Con Estrella era diverso, avrei voluto stare sempre con lei dentro quel banco, e sapevo invece che, dopo lo spettacolo di domenica, il circo avrebbe tolto le tende e i carrozzoni avrebbero imboccato la grande strada bianca per tornare forse fra un anno, forse mai più.
Che cosa crudele e mutevole, gli affari umani. Bill lo sapeva, e se ne stava annoiato nella sua cuccia sotto il pagliaio, battendo la coda. Da quando era arrivata Estrella, non lo degnavo più delle mie attenzioni, non facevo che penzolare dalla rete di recinzione del campo che dava verso l’accampamento degli zingari. II punto d’osservazione era troppo lontano, ma nessuno aveva tempo di portarmi là fino a domenica. Vennero con me mio padre e mia madre vestiti a festa, ed entrati dentro la grande tenda circolare trovammo posto tra le prime file.
L’odore dei cavalli saliva inconfondibile dallo strato di segatura che ricopriva la pista. Le seggiole erano di ferro verniciato color verde scuro, come i pennoni della grande tenda sopra di noi. La tenda era rosso-ocra, con ornamenti gialli, e l’odore della plastica si confondeva con quello animale. Dagli altoparlanti sospesi ai pennoni scendeva la musica allegra di una banda molto più convincente di quella del paese. Io ero già eccitata, anche senza la musica, e mi chiedevo dove fosse Estrella e se sarebbe venuta a salutarmi. Rimasi in piedi, per timore che non mi vedesse, finché le luci si spensero e cominciò lo spettacolo.
Non ricordo molto quel che successe in quella mia prima sera al circo, forse iniziarono col numero degli acrobati dei piatti, oppure con i clown. Io non riuscivo a rilassarmi e a godere lo spettacolo perché cercavo in ogni acrobata che entrava in pista il volto della mia amica, finché mi accorsi che Estrella era vestita da clown. Provai una stretta al cuore, una delusione cocente al vederla col naso rosso, i vestiti più rattoppati di quelli che portava a scuola, e le scarpe più brutte del mondo. Insieme a lei, in pista, c’era un clown adulto, assolutamente ridicolo, con un cappellaccio sugli occhi che lo faceva inciampare, cadere, sbattere la testa dappertutto. Estrella, per fortuna, era svelta e scansava i tranelli dell’altro, ma era anche maleducata come mai mi sarei aspettata. Il pubblico rideva divertito e io sapevo che era una finta, però non riuscivo a ridere. Solo quando i due clown uscirono dalla pista cominciai a rilassarmi e a godere finalmente lo spettacolo.
Il presentatore, in giacca rossa, spalline d’oro, pantaloni candidi dentro stivali neri, annunciò il numero dei trapezi. Senza rete protettiva, due giovani in calzamaglia bianca salirono sui trapezi e iniziarono i volteggi, prendendosi, lasciandosi, volando da un trapezio all’altro con complicate piroette. Alla fine del numero ero senza fiato. Sulla pista entrarono allora due uomini muscolosi che sembravano gemelli. Si afferrarono per le palme delle mani e in un attimo erano capovolti uno sulla testa dell’altro, in verticale.
Mentre il pubblico applaudiva, entrò una ragazzina in costume bianco, e il mio cuore cominciò a tremare. I due gemelli, distanziandosi, poggiarono le estremità di una pertica sulle spalle. Estrella vi salì sopra e, bilanciandosi nel vuoto, camminò fino a metà della lunga asta, che si fletteva sotto il suo peso. Guardavo ammirata il suo corpicino, bello e splendente, la grazia dei movimenti, le braccia aperte, le gambe dritte e sicure, quando all’improvviso Estrella spiccò il volo. Si dondolò un po’ per prendere lo slancio e poi roteò in aria, ricadendo in piedi sulla pertica. Il pubblico applaudì. Un tamburo suonò e ci fu silenzio. Estrella si dondolò più forte, poi, curvandosi come un gamberetto, fece il doppio salto mortale. Scrosciarono gli applausi e le grida di ammirazione. Io osservavo tutto in silenzio. Era lei la bambina timida che avevo conosciuto nel mio banco di scuola? La piccola acrobata si inchinò sorridente a ricevere gli applausi e, volgendo le spalle con un guizzo del corpo, sparì saltellando dietro il tendaggio delle quinte. Mi sentii profondamente indegna. Io riuscivo al massimo a dondolarmi da un ramo dell’albero più basso dietro casa nostra.
Irruppero sulla pista i cavalli. Erano tre maestosi cavalli neri, coi pennacchi in testa e le bardature rosse e gialle sul dorso e sul collo. Questo era il numero finale con gli unici animali di quel piccolo circo. Nel nostro paese non arrivavano gli animali esotici, le bestie feroci. Dietro ai cavalli rientrò Estrella con altre due donne, e cominciò il carosello di acrobazie. Estrella saltò in groppa al cavallo di mezzo con un semplice balzo da terra, neanche fosse fatta di gomma. Cavalcò per un po’ intorno alla pista insieme alle altre. Nella mia famiglia avevamo ancora cavalli e asini e gli uomini di casa li montavano anche senza sella, ma non avevo visto nessuno cavalcare come Estrella. Era tutt’uno col cavallo, lo assecondava nei movimenti come se gli fosse nata in groppa e, d’istinto, riconobbi l’eleganza, la nobiltà selvaggia di quel connubio. Quello era il suo animale preferito. Lo cavalcava fiera e felice. Provai un misto di gelosia e disperazione. Estrella non avrebbe mai potuto star rinchiusa fra le nostre montagne, dentro le nostre case di sassi, tra le mura ammuffite della nostra scuola.
La mia eroina ripeté le acrobazie della pertica anche sul cavallo, stando in perfetto equilibrio in piedi sul dorso dell’animale mentre andava al trotto. Mi girava la testa. Quel mondo fantastico era per me un sogno irraggiungibile. Anche se fossi partita col suo carrozzone l’indomani, cosa poteva farsene Estrella di una pappamolla come me?
Finito lo spettacolo e la musica, il pubblico rifluì dalla tenda nel buio della campagna. Io restai indietro, scongiurando mia madre di aspettare. Non sapevo come avrei fatto a salutare Estrella, quando vidi arrivare la ragazzina umile e dimessa che avevo conosciuto a scuola. Aveva i capelli bagnati di sudore e un accappatoio scuro stretto intorno al costume. Il viso le brillava del sudore e del trucco argentato intorno agli occhi. Si avvicinò sorridendomi e io le corsi incontro e le strinsi le mani con adorazione. Non avevo parole. Estrella mi ringraziò d’essere venuta a vederla e disse che le dispiaceva partire.
“Tornate l’anno prossimo?” chiese mia madre, dopo averle fatto i complimenti.
Estrella alzò le spalle, dubbiosa, poi mi abbracciò, impacciata, come se abbracciasse il collo del suo cavallo.
Lei mi avrà certo dimenticata, ma io serbo ancora il ricordo della zingarella. Dopo la sua partenza, per molte notti sognai che tornava a rapirmi sul suo cavallo nero.

 

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