Fenomenologia di Montalbano

Guardatelo con amore. Guardatelo con supponenza. Guardatelo per abitudine, per affetto, per bisogno di un punto di riferimento nell’epoca spazzata da venti obliqui, spesso ingannevoli e malsani, che stiamo vivendo. Sì, lo guardiamo, questo è certo. Quasi undici milioni di italiani, esausti ed esauriti dalle bufale elettorali, si incollano il lunedì sera davanti alla vecchia cara mamma tv, perché c’è Montalbano.
Introdotto dal pistolotto al limite dello spoileraggio di un Camilleri tendente all’ipertrofia dell’ego (come dargli torto, d’altronde?), il rito del commissario è ormai officiato con crescente tripudio nazionalpopolare, come è stato per l’ultimo Festival di Sanremo. Un fenomeno non nuovo, per carità, ma che suggerisce qualche riflessione.
La prima rimanda all’invecchiamento inesorabile del nostro paese. Il quale, complice l’artrosi e il disincanto senile di un esercito di over 50 fluttuanti tra un lavoro insoddisfacente, se non proprio chimerico, e l’attesa dell’inafferrabile pensione, diserta in massa cinema e teatri, sedato in un letargo invernale all’insegna del low profile casalingo.
La seconda, fatto salvo (calembour involontario) il valore degli interpreti in campo, chiama in causa la crescente predilezione del pubblico televisivo per le serie, ormai prevalenti sul film cotto, mangiato e digerito in un paio d’ore. Il modello americano insegna sempre: la serie costa meno e rende di più, almeno in televisione. E gli sceneggiatori di vaglia sono ormai da decenni precettati in quella direzione.
Infine, la considerazione ovvia che l’eroe senza macchia, a maggior ragione se indotto continuamente in tentazione e umanamente vacillante come un Cristo sulla croce, piace ineluttabilmente, dai tempi di Topolino, Superman ed eroi assortiti nel corso di anni e anni di fiction multimediale.
Nello specifico, la nuova serie dell’amatissimo commissario preme ancora di più sul pedale, già alquanto abusato, dell’iperbole: Camilleri (soprattutto in tv) accentua, caricaturizza, deforma. La sua Sicilia non esiste nella realtà, è una creazione autoriale di successo, al limite dell’iperrealismo. I suoi personaggi sono pupazzi, anzi, pupi che la produzione manovra come pubblico comanda, anche quelli volutamente antipatici come l’insopportabile Livia, o il medico legale Iacomuzzi, improbabile dandy studiato per far fronte alla dolorosissima perdita (vera) del compianto dottor Pasquano.
La consueta dose di gnocca sicula, solare in apparenza ma torbida il giusto per turbare un filino il sonno dei vecchi sporcaccioni del lunedì tra i quali, sia chiaro, mi iscrivo a pieno titolo, ci porta a concludere che oplà, il gioco è fatto.

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