Figlio, non sei più giglio

Uno spettacolo creato da tre donne: Daniela Poggi, Mariella Nava e Stefania Porrino, un’attrice, una musicista e una scrittrice, che hanno lavorato insieme per creare un evento che si interroga, con forza e profondità, sulla attualissima e insieme eterna tempesta del femminicidio. Si parte da Jacopone da Todi, dal suo Pianto della Madonna, dove una madre ai piedi della croce piange un figlio innocente, un figlio che è “amoroso giglio”, rovesciandolo nel suo contrario.

Due donne dialogano, la madre dell’assassino e la madre di un giovane apparentemente normale. In un confronto di emozioni e ricordi, fra musica e recitazione.

Una domanda attraversa tutto lo spettacolo: “…ma la guardavi negli occhi, mentre la colpivi, mentre lei gridava, la guardavi negli occhi. Non sei riuscito a vedere in quegli occhi di donna gli occhi di una madre così simili agli occhi di tua madre…”.

L’intreccio delle tre voci, dell’autrice e regista, dell’attrice e della musicista, compone e confronta le loro tre diverse esperienze, i saperi e le sensibilità, in uno spettacolo che coinvolge fino in fondo all’anima e spinge alla riflessione in un vero e trascinante “melologo”. Siamo artisticamente portati da queste tre creatrici verso una visione del rapporto fra uomo e donna fuori dagli stereotipi, della misoginia che permea le culture umane, che fa apparire naturale e oggettiva la superiorità dei maschi sulle femmine, naturale e giusta la violenza maschile, naturale la considerazione delle femmine come oggetti; che, soprattutto, presta a una mascolinità narcisista e velenosa il compito di definire gli uomini come “veri” uomini.

Uno spettacolo dalle molte facce che ci fa intravedere la possibilità di ripartire verso una società umana più sana ed equilibrata.

Figlio, non sei più giglioscritto e diretto da Stefania Porrino con Daniela Poggi e Mariella Nava e con il supporto di Global Thinking Foundation. Spettacolo ricco di appuntamenti è partito il 20 ottobre da Tolentino al Politeama ore 18, proseguirà con le repliche:

26 ottobre Massarosa – Teatro Manzoni ore 21.15

30 ottobre Camera dei Deputati (su invito)

11 novembre Roma – Teatro Villa Lazzaroni ore 21

18 novembre Trento – Teatro San Marco ore 20.30

25 novembre Massa – Teatro Guglielmi

29 novembre San Quirino

30 novembre Albenga – Teatro Ambra

6 dicembre Budoni (Ot) – Anfiteatro Comunale

6 marzo San Sepolcro (Ar) – Teatro Dante

7 marzo Castagneto Carducci (Li) – Teatro Roma ore 21

Molte altre piazze sono in via di definizione.

 

Testimonianze di Stefania Porrino, Daniela Poggi, Mariella Nava a proposito di “Figlio,non sei più giglio” 

 Stefania Porrino

Quando Daniela Poggi mi ha chiesto di scrivere un testo sul femminicidio visto però non dalla parte della vittima ma da parte della madre del colpevole, mi è tornata alla mente, per evidenziare l’universalità del dolore di una madre costretta a scoprire nel figlio che lei stessa ha procreato e cresciuto un assassino di donne, la famosa lauda di Jacopone da Todi Il pianto della madonna.
Lì, una madre ai piedi della croce piange un figlio innocente, un figlio che è “amoroso giglio” ingiustamente ucciso da chi non ne ha compreso la grandezza.
Nel mio testo invece è una madre, anch’essa trafitta da una spada, ma anche incredula e spaventata  di fronte all’azione violenta e inaspettata di un essere uscito dalle sue viscere ma evidentemente a lei completamente sconosciuto nella sua parte più oscura, in quella parte d’ombra che ciascuno di noi nasconde dentro di sé e dalla quale partono impulsi incontrollabili che se non individuati a tempo possono spingere ad azioni che non si sarebbe mai immaginato di poter compiere.
Infatti nell’analisi di un femminicidio, a mio parere, esistono sempre due catene di cause di origine diversa ma che poi si intrecciano in un nodo difficile da sciogliere: da una parte l’influsso culturale di una società che ancora reca con sé ampie tracce di maschilismo non tanto nelle dichiarazioni programmatiche o nelle leggi quanto nella prassi quotidiana che sottopone le donne a sforzi sempre maggiori per mantenere le conquiste fatte e che, per esempio, le costringe sul lavoro  a “dimostrare” di essere più brave di un collega maschio per ottenere quello che a lui viene riconosciuto senza particolare sforzo.
Dall’altra parte quello che determina o meno un’azione violenta contro una donna è il particolare modo con cui ogni singolo uomo introietta nella sua psiche i condizionamenti sociali e culturali dell’ambiente in cui vive. E che questa introiezione avvenga nei primissimi anni di vita del bambino è ormai spiegato chiaramente dalle neuroscienze. Ma ancor prima era stata Maria Montessori (donna di grande statura intellettuale e uno dei più interessanti modelli di “donna moderna” della prima parte del Novecento – su cui sto lavorando proprio in questo periodo per un nuovo testo) ad intuire e a dimostrare che il bambino è il costruttore dell’uomo di domani e che se si vuole migliorare il mondo di domani bisogna agire sull’educazione del bambino.
Per questo, se si vuole davvero andare alle radici del fenomeno, sperando di estirparlo definitivamente dalla nostra società, bisogna mettere in campo un vasto piano educativo che comprenda scuola e famiglia e che miri a dare maggiore autoconsapevolezza sia a chi educa che a chi deve essere educato per imparare a sciogliere quel nodo tra influssi socio-culturali e problematiche psicologiche di cui ho parlato.
E il teatro, in questo senso, può essere di grande aiuto in quanto per sua natura uno spettacolo agisce sia sulla parte razionale che su quella emotiva dello spettatore dandogli la possibilità di fare un’esperienza completa capace talvolta di trasformare idee ed emozioni in chi vi assiste e partecipa.
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Daniela Poggi

1.Quando affronto un personaggio al quale devo dare anima corpo e voce metto in discussione tutte le mie certezze, mi svuoto, come una kenosis, entro in punta di piedi in quell’altro vissuto, mettendo a disposizione tutto il mio vissuto. Decostruisco me stessa e costruisco un’altra me attraverso i tanti sguardi e racconti di altre umanità rapiti nel tempo.
2. Vedo una società sempre più individualista proiettata sulla propria esistenza come se l’altro non esistesse. Una società che non vuole pensare, riflettere, mettersi in discussione. Vedo una grande solitudine interiore bisognosa di esistere attraverso false immagini di sé per attirare attenzione. Apparire più che essere. Una società omologata al sistema perché più comodo farsi dire ciò che uno deve fare piuttosto che trovare la propria direzione. Costa troppa fatica.
3. Credo che si sia perso di vista il valore dell’essere come dono prezioso di una vita che ci viene donata e verso la quale dobbiamo avere rispetto. Conoscersi per farsi conoscere per quello che veramente siamo anche nelle nostre fragilità. E sono proprio quelle la nostra forza. L’umano ha paura di ciò che non conosce e preferisce allontanarlo o eliminarlo, meglio. L’uomo come essere maschile non accetta la propria femminilità, non riflette sul fatto che all’inizio tutti gli embrioni sono femmine e non prima della sesta ottava settimana entrano in campo i cromosomi X e Y e da li lo sviluppo del sesso eventuale maschile. Poi dai tempi l’uomo culturalmente doveva essere forte muscoloso per andare a caccia e procacciare il cibo. Ci hanno inculcato la favola del principe azzurro che ci salverà.E abbiamo cercato sempre la protezione nell’uomo prima ancora che in noi stesse. Viviamo una società maschilista prepotente ed egoista. Ma il problema siamo anche noi donne. Abbiamo usato il nostro corpo e continuiamo ad usarlo per ottenere benefici e conquiste di ruolo.Non ci rendiamo conto o ce ne rendiamo troppo tardi, che nel frattempo il danno è fatto. Uomo bello forte ricco e potente, donna bella ricca sensuale. La pubblicità, i media e i racconti di fiction mostrano sempre l’uomo vittorioso perché  raccontare la debolezza o il perdente è sinonimo di non valore umano. Discorso complesso che dovremmo affrontare con calma e soprattutto confrontarci con le nuove generazioni per conoscerne gli ideali, gli obiettivi, malesseri o certezze. Abbiamo costruito una società dove l’altro è sempre sottoposto a giudizio o critica. Non si vuole conoscere l’anima altrui. Meglio alzare la voce, il pugno, odiare ed uccidere, piuttosto che dialogare e fermarsi un attimo a “pensare”: chi sono io veramente?
Vivere lo spazio, il tempo, attraverso lo sguardo e accorgersi dei messaggi che la vita ci dona, potrebbe aiutarci a capire che solo nel rispetto dell’altro, possiamo dire che rispettiamo noi stessi. Modificando il linguaggio soprattutto quando è pubblico! Perché colui che appare diventa emulazione per colui che è più debole. Insomma quanta responsabilità in ognuno di noi!
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Mariella Nava

Ci ho messo il cuore nel cuore delle domande che si pone Daniela nel ruolo di una madre delusa dal figlio. Le canzoni che canto le ho scelte dal mio repertorio e scritte a tema per gli argomenti che man mano si snocciolano nelle riflessioni più profonde di una madre tradita due volte, come madre e come donna, da un figlio violento e colpevole di aver ucciso la propria compagna incinta. Così passiamo dall’entusiasmo dell’ amore che il rapporto uomo donna può determinare nel suo nascere e poi deluso e disatteso da incomprensioni di vario tipo. E poi il concepimento.di un figlio. Le aspettative, la speranza già in atto durante la gestazione dello stesso e poi la nascita e l’atto più importante del processo educativo. Il rapporto madre figlio che si deve compiere e distruggere per fare nascere uomini nuovi, indipendenti e maturi, consapevolmente responsabili di nuove vite accanto e dopo di loro. Accendiamo mille interrogativi perché crediamo che sia un metodo preventivo per guardarsi dentro e connettersi con la realtà dei propri figli o dei propri amici o dei propri genitori o di chi ci vive intorno ed è un richiamo per chiunque venga ad assistere al nostro “melologo”. La storia che ci hanno ripetutamente raccontato è che, fin dalla preistoria, l’ uomo cacciasse e la donna aspettasse passivamente con i suoi figli nelle caverne. Questo stereotipo di ruoli, non solo è stato messo in dubbio da ricerche su quelle civiltà cosiddette “remote” ancora presenti su alcune zone del nostro pianeta, ma addirittura rivisto, riletto e smentito dai ritrovamenti di archeologi e dagli studi attuali scientifici sul comportamento ancora vigente nel mondo animale a cui spesso psicologi e sociologi si appellerebbero per giustificare impropriamente impostazioni di vita subalterna della femmina al maschio in tutte le specie viventi. È dimostrato infatti che proprio tra i leoni, presi spesso ad esempio di “potenza e virilità, siano le leonesse ad avere la gestione della loro socialità e decidano quando un maschi può fare parte di un gruppo ed espellerlo a loro piacimento se non ritenuto giusto, e che vadano a cacciare mentre i maschi devono attendere e badare ai cuccioli, così come nelle Ande, alcuni gruppi indigeni presentino donne che si organizzano strategicamente e non lasciando nulla alla casualità per le loro uscite di caccia e per procurarsi il cibo, mentre i loro compagni devono raccogliere frutti nei campi e “governare” le loro dimore perché siano accoglienti e pronte al loro rientro. Del resto l’ avremmo anche potuto pensare dal momento che notoriamente nella mitologia era Diana, quindi una donna, la dea della caccia e non un dio. Dunque! Tutto sovvertito. Nessun ruolo predefinito o antico a cui poter fare riferimento. Ogni società può organizzarsi in modo corretto distribuendo i ruoli e concorrendo ad un giusto posto individuale e ad un giusto rispetto delle singole capacità e delle vite stesse. Non c’ è differenza di genere nel modello primario e originario sociale. È sempre stata una scusa oltre che una menzogna. Adesso che studi approfonditi ce lo dimostrano, si può ripartire da lì per parlare di vera complicità di ruoli da recuperare e di pari diritti in una società moderna e finalmente progredita e di quello che è il giusto riconoscimento della donna accanto alla figura maschile con tutta la potenzialità e la versatilità del suo essere. La donna per prima deve smettere di investire solo sul suo aspetto e lavorare sulle capacità intellettive di cui da sempre è dotata, altrimenti sarà sempre prigioniera e vittima di quel cliché e mai veramente riconosciuta e libera.

1 commento su “Figlio, non sei più giglio”

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