Figurini

Lo chemisier

Era un abito con maniche lunghe chiuse da un polsino. Abbottonato fino in vita e con revers aperti. Mia madre ne aveva uno di mussola bianca a grandi riquadri neri. Lo metteva nei pomeriggi di settembre, attraversavamo il ponte sulla vallata e la gonna si sollevava improvvisamente, spinta dal vento di Provenza. Metteva una spilla sul bavero, di pietre rosse. Io ne toccavo la stoffa morbida e sottile. Avrei voluto averne uno, sarei stata grande con un abito così, sarei diventata una signorina, indossando le calze di naylon e scarpe con il fiocco. La sera tornavamo a casa, mia madre tratteneva l’orlo sulle gambe, il cielo si faceva nero ed era subito autunno

Il prendisole

Era senza maniche e sorretto da bretelle sottili. Lo si poteva coprire con un “bolerino” piccolo e breve sulla vita. Ne avevamo tanti, li mettevamo a Taormina nei giorni di agosto, quando pranzavamo in giardini ombrosi e il caldo opprimeva. Ci facevamo scattare fotografie ed eravamo sorridenti. Mia madre ne aveva uno di stoffa – paglia rosa, bordato di nero. Si gonfiava all’aria del mare, la bretellina scendeva sulla spalla e il gesto era molle e irriverente. Quando lo toglieva stava adagiato sulla poltrona e sembrava contenere ancora il suo corpo. Le spalle rotonde e le braccia sode, i fianchi sottili e il passo delle anche ampio. Dormivamo con le finestre aperte, la luna sospesa e chiara nella stanza. Il prendisole aspettava un altro giorno.

Il tailleur di piquet

Bianco e spesso, con larghi bolli neri. Da indossare il pomeriggio. Le mezze maniche della giacca aperta su una maglia di filo intrecciato color limone. Così come il foulard di chiffon annodato al collo mentre lo scirocco ci spingeva verso le panchine del porto. La Calabria era umida e bianca. Il nostro volto coperto da una patina leggera, le navi attraccavano lente e luminose. Il tailleur dava fiducia, la sua stoffa densa e non liscia ci rendeva eleganti in ogni istante di quei giorni estivi. Demolivamo gelati in forma di torri, una macchia di caffè si posava sulla giacca, a segnare quel tempo. Il nostro “oh” meravigliato, lo sguardo sperso sullo Stretto. Sicilia sempre

L’ abito di taffetas

Era blu navy, in double celeste, gonfio e frusciante, lucido e liscio. Per le sere di ferragosto quando l’orchestra suonava veloce e le coppie scivolavano sul borotalco della pista. La gonna arricciata sul fianco, una rosa di stoffa dai petali aperti, la balza sulle ginocchia scoperte. Mia madre metteva una collana di cristalli rosa, lunga, si insinuava nel solco dei seni. Le navi scivolavano silenziose nella notte, il vento si fermava, i gelati si scioglievano nelle coppe, il sonno prendeva imperioso, la musica si affievoliva. L’abito si sgualciva, la mano di mio padre sulle spalle di lei, il suo rossetto ormai sbiadito. Finiva l’estate, ci sarebbero state nuvole molto presto. E gli abiti li avremmo riposti in valigia. Tornavamo nella nostra città sui monti

L’optical

Era bianco con strisce applicate nerissime. Un collo largo, l’orlo corto sulle gambe magre. Gli occhiali bianchi coprivano il mio viso. Andavamo là dove il mare si divideva, e diventava Tirreno, dove il vento si chiama “furia”. Il rossetto di rosa pallido, un desiderio dei giorni, il gelato che si scioglieva perché non avevo mai fame, e i libri e gli orecchini a quadretti optical. Gli anni cambiavano con questi colori, le canzoni pure, l’Inghilterra veniva sognata, e il tempo avrebbe avuto un nome diverso. Quel vestito e un amore lontano, una estate ventosa, lettere e baci. Tutto sembrava vero

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