FIORE DI ROCCIA

Mondine d’altura, staffette partigiane ante litteram: questo erano le “Portatrici carniche“, contadine che affrontavano i ripidi percorsi montuosi per raggiungere ancora più in alto la trincea del fronte italiano nella grande Guerra. Nelle gerle portavano viveri, munizioni, medicinali, carichi pesantissimi issati sulle spalle in delicato equilibrio. Camminavano ore nella neve col rischio di scivolare per i pendii sdrucciolevoli o di essere sommerse dalle slavine, con le cinghie che mangiavano le carni, il pensiero ai figli piccoli e ai vecchi lasciati a casa. Smagrite e affamate come lupe – una patata bollita in tasca per pranzo – venivano accolte dai soldati come salvatrici. Gli uomini dapprima sospettosi – son donne, pensavano – poi onorati e commossi dalla loro dedizione.


A raccontare questa piccola grande storia, la scrittrice friulana Ilaria Tuti, che con il suo romanzo “Fiore di Roccia” ripercorre le tracce di quelle donne misconosciute: le donne di Timau, frazione di Paluzza (UD), trenta ragazze armate solo della loro tenacia, che conoscevano a menadito le vie della “fienagione”. Tra loro, Viola, Maria, Lucia spicca la figura di Agata, un padre moribondo da assistere, due capre più magre di lei cui spremere latte e tanti libri letti ereditati dalla madre insegnante. Schiva ma determinata, è lei per prima a stringere un rapporto di stima e “parità” con il comandante e l’ufficiale medico della guarnigione, è a lei che viene regalato in segno di rispetto non una rosa ma un Fior di roccia, la stella alpina. Le vicende di Agata si intrecciano insieme a quelle delle sue compagne, del curato (bellissimo il ritratto del parroco Don Nereo), dei soldati italiani e di quelli invisibili dell’esercito austriaco, che al di là della trincea sparano su qualunque cosa si muova, di giorno e di notte. In paese vengono chiamati i Diavoli bianchi, i cecchini (da Cecco Beppe, dispregiativo di Francesco Giuseppe, imperatore austro-ungarico), odiati e temuti per la loro crudeltà e precisione. Con una scrittura piana e minuziosa che accelera il ritmo nei momenti più affannati e lo rallenta in quelli contemplativi – il bosco di notte, le montagne imbiancate, le veglie al capezzale dei malati – la Tuti racconta oltre alla tragedia insensata del primo conflitto mondiale, l’importanza delle donne, fino ad allora solo buone a occuparsi dei figli e delle faccende domestiche “… sono diventate più indipendenti… hanno dovuto prendere il posto degli uomini nelle fabbriche, nei negozi, negli uffici”. E, soprattutto, della pietas che manifestavano nei confronti di tutti i caduti che fossero dall’una o dall’altra parte della barricata. Leggendo queste pagine avevo negli occhi il capolavoro di Ermanno Olmi “torneranno i prati” ambientato negli stessi luoghi e negli stessi anni.
Nel 1997 il presidente Scalfaro assegnò la Medaglia d’oro al Valor Militare a Maria Plozner Mentil, simbolo delle “Portatrici”, uccisa da un cecchino nel 1916, mentre saliva a portare rifornimenti.

Fiore di Roccia di Ilaria Tuti – ed. Longanesi

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