“Ci dev’essere qualcosa negli scacchi”, avrebbe detto Bradbury, se un ragazzino ebreo di Brooklyn, con un Q.I. di 180 decide che in quei sessantaquattro quadrati bianchi e neri è racchiuso il segreto della vita, fino al punto di dedicare ad essi tutti i sessantaquattro anni della sua esistenza.
Quel ragazzino si chiama Bobby Fischer. Potrebbe essere un eroe di Philip Roth, un ebreo tormentato dalla propria intelligenza, che lotta per raggiungere quello che non ha e, alla fine, perde perfino ciò che aveva. Invece è un dandy prestato alla scacchiera: abiti blu, scarpe su misura, camicie bianche e cravatte perfette. La sua prima epifania è del ’63: è Kronsteen, lo scacchista russo di A 007 dalla Russia con amore. Naturalmente non è davvero lui, è la sua idea platonica. Lui si manifesterà dieci anni dopo, durante il più mediatico campionato del mondo di scacchi della storia. Prima c’è il figlio di un’ebrea polacca che a sei anni impara il gioco degli dei leggendo le istruzioni di una scacchiera giocattolo. Jack Collins, paraplegico e campione di scacchi per corrispondenza, è il suo primo allenatore. Bobby comincia a muovere i pezzi del suo mito. A tredici anni disputa contro Donald Byrne quella che molti giudicano la più bella partita del secolo. Nel ‘72, a ventinove anni, affronta il russo Spasskij, campione del mondo in carica, nella sfida per il titolo che si terrà a Reykjavik tra l’11 luglio e il 3 settembre di quell’anno.
L’inizio è disastroso. Fischer minaccia di abbandonare il campo se non avrà una borsa di 250.000$. Perde le prime due partite. La terza viene giocata in uno sgabuzzino. Fischer vince e comincia la rimonta. Dopo ventuno sfide il mondo è suo. Siamo in piena Guerra Fredda. Nixon, che fa della politica estera un uso “disinvolto”, cavalca la vittoria come una tigre. Gli americani che, secondo Fischer, “vogliono solo piazzarsi davanti alla tv e non aprire un libro…”, diventano patiti degli scacchi. Non sanno ancora chi è veramente Bobby Fischer. L’idolo delle folle, l’uomo che occupa media e televisioni, il testimonial più desiderato dai pubblicitari, è in realtà un anarcoide individualista e fobico, che diventa una nullità solo tre anni dopo, quando rifiuta di difendere il titolo contro il russo Karpov.
Ma la caduta del re non è finita. Per anni scompare dal mondo. Pare che viva da barbone in California, evadendo il fisco e distribuendo – lui, ebreo di nascita – materiale antisemita. Nel ‘92, sfidando l’embargo americano, compare in ex Jugoslavia per una rivincita-farsa contro Spasskij, che non è più lo scacchista di un tempo. Vince, ma per gli U.S.A. è ormai un nemico pubblico. Contro di lui c’è un mandato di cattura. Fischer scompare ancora. Forse vive in Ungheria, forse in Giappone. Nel 2001, alla radio filippina, esulta per l’abbattimento delle Torri Gemelle. Tutta l’America odia l’ex ragazzo prodigio. Bush jr gli mette i servizi alle calcagna, ma Fischer è troppo intelligente per le trappole del babbuino. Sembra davvero di essere in un film di Bond. Nel 2004 viene arrestato a Tokyo per un passaporto irregolare, di fatto perché il governo U.S.A. sta ricattando quello giapponese. Ha la barba grigia, lunga e incolta, pantaloni e camicia di jeans, sandali ai piedi e berretto da baseball: un dandy hobo, nonostante tutto. Sarebbe estradato in America se il governo islandese non gli concedesse un passaporto. Muore nel 2008, a Reykjavik, per una malattia renale. Ha sessantaquattro anni, il numero delle caselle del gioco degli scacchi.