Flamenco

Sabina ha rovesciato il mio mondo.
In un pomeriggio di maggio mi ha proposto di entrare nell’arte del flamenco, di cui è maestra.
Ero senza risposte: non lo sapevo suonare, ero soltanto una musicista classica.
«Hai voglia di buttarti? Se sì, hai compiuto l’ottanta per cento del lavoro, il resto è esperienza» mi ha detto.
La sua tenacia ha avuto la meglio, mi sono lasciata sollevare dal vortice di quest’arte figlia di una terra tanto diversa dalla mia.
Piedi, tacon, media planta, palmas, palos, cante. Cadevano gli schemi, iniziavo a non contare più dall’uno, come avevo imparato da brava musicista.
Pochi mesi dopo, Sabina mi ha chiesto un brano che non avevo negli spartiti, la mia determinazione ha preso il sopravvento: «Via il leggio, non mi serve più!».
La danza che ne è nata era fuori da questo mondo. Il mio essere si è esteso e appoggiato a dimensioni che non avevo mai sognato di poter toccare. Era sbocciata un’ispirazione del tutto fusa nelle due arti, come fare l’amore, respirando altrove. Furia di lampi che si scontrano in una notte estiva di tempesta, passione promessa per l’eternità.
Ieri sera è successo di nuovo. Nella sala Sabina con le sue allieve, il chitarrista, io e la mia violoncella. La sensazione di cotone ruvido, che mi accompagna sempre all’inizio, si è subito dissolta; la musica ha abbracciato la danza, in cerca, nello stesso momento, di note contemporanee, dissonanti, che stupiscono e svegliano dalle brame di abitudini e ricerche profondamente classiche. Ho sorpassato ogni confine, sono diventata i corpi che danzano; le mie dita suonavano, danzavo e suonavo simultaneamente. Per fortuna ho imparato che la l’esistenza è movimento, che niente è statico mentre vive.
Oggi ancora lo sento. Non è finito ieri, non è rimasto nella sala.
Il flamenco è entrato nel mio sangue.

 

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