Tutti mi chiamano Gatto, ma non so veramente il mio nome. Stiamo chiusi dodici ore al giorno in un appartamento di due stanze che, per la ressa, diventa microscopico. Ci sono mobili, uomini, donne. C’è una valigia con dentro un telefono e un frigorifero con un paio di scarpe e una bottiglia di latte per me. Ogni tanto, dalla tromba delle scale, si sente la voce di qualcuno che imita qualcuno che urla in giapponese. L’altro giorno hanno fatto una festa. Una tizia è crollata a faccia in giù sul pavimento. A un’altra ha preso fuoco la parrucca. Io li guardavo dall’alto di una mensola, seguendo il fumo di una sigaretta.
C’è anche una ragazza. A volte indossa solo una camicia, a volte un abito nero lungo fino ai piedi. Sulla fronte si mette degli occhiali di stoffa. Le piace rifare le cose tante volte. Una sera si è messa a cantare alla finestra, e continuava a smettere e ricominciare. Un uomo diceva Stop! e lei smetteva. Un altro diceva Ciak! e lei ricominciava. Però la canzone era bella. Anche lei non è male. Tutti la chiamano Holly. Ma non so veramente il suo nome.
Audrey Hepburn, all’anagrafe Audrey Kathleen Ruston
(Bruxelles, 4 maggio 1929 – Tolochenaz, 20 gennaio 1993)