Ho sentito un miagolio dietro la porta, mentre frugavo nella borsa per le chiavi. “Aspetta, Lino, arrivo”, ho pensato, pregustando trasognata la carezza della piccola creatura pelosa.
Crack, crack, crack, la serratura, poi dietro il vuoto affollato dell’appartamento. Solo la radio accesa che penava in cucina, il tempo di una canzone inascoltata, indifferente a me e al mio micio assente.
Addio, piccolo amico, questa visita è finita, la campana è suonata.
“E’ solo un gatto,” dissero alcuni allora, tra le righe di un commento di circostanza. Un gatto, un esserino programmato a vivere tre lustri. E così è stato. Quindi perché? E vabbe’.
In un’alba di un agosto gentile se n’è andato, dopo lungo, straziante soffrire. Io e lui soli nella sua agonia. Ho visto gli occhioni di giada suadenti e sornioni diventare vetro iridato e immoto, il morbido corpicino caldo bianco e nero, irrigidirsi, freddo sotto i primi raggi.
Carezze e tenerezze, sguardi fusa, specialissimi versetti di goduria o di protesta, e poi il dolore svanire sotto il sole ormai alto: le parole di un gatto, il mio gatto, il gatto Lino, finire.