Di colpo, in una nordica città italiana che mi astengo dal nominare, all’angolo di una strada con un’altra che non dico, al posto di una filiale della nota catena di ferramenta Zeta, è sorta la delirante boutique Giadina Zeta. Immagino Giadina Giadetta Zeta abbia chiesto a babbuccio suo Zeta Zeta: “dai, aprimi un negoziettino tutto per me, tanto lì di chiodi e bulloni non ne vendi più… fammi felice…”. E, in una strada dove negozianti e bottegai tirano faticosamente a campare, quando non sono costretti a chiudere, oggi si apre, solenne e cafona, Giadina Zeta.
Manichini alti due metri, sistemati in pose da lordosi scoliosi & cifosi, sfoggiano mini abiti fosforescenti. I colori ricordano il vomito del gatto, ma col neon dentro. Catene ovunque. Nel centro della negozia scintillante e cristallina troneggia un pouf rosa, gigante, tipo fontana di raso capitonnè. Lancio un’occhiata ai prezzi: duemilaottocentoottanta, tremilaecento euri, uno scherzo per un target di ricche gigantesse anoressiche daltoniche e gobbe. Chissà quante sono.
Si attende il solenne vernissage con sfilata, che invaderà il marciapiede di fronte, e oltre. (Papà Zeta deve vantar amici in Municipio). Camerieri in livrea, direttrici in tailleur – come usavano antecrisi – girotondano per loro compiti definitivi. I cellulari ronzano, i tablet tablettano. Una musica trendissima ingolfa il viale, il marciapiede di fronte, i palazzi che vi s’affacciano. Il catering scarica bloccando il traffico.
Non sono tra gli invitati. Sono fra i comuni mortali che lumano cristando. Mi allontano prima dell’arrivo dei Vippissimi. 50 metri più avanti, alla bancarella quasi italiana acquisto felice una maglia larga di cotone. 20 euro. La indosso sui leggins bordò. Sembro un paggetto. Addio Giadina.