Giocava. Racconto in cinque parti

La solitudine di una bambina

Era un agosto torrido. Le vacanze fuori città erano già state frettolosamente consumate il mese precedente e ora la noia accompagnava giornate eterne. Qualche volta la mamma la portava al mare. Che gioia, allora! Il prepararsi al mattino presto, il salire sulla corriera, arrivare allo stabilimento, accettare raccomandazioni e divieti in cambio dell’abbraccio delle onde, del calore della sabbia, della musica del juke-box, delle risate delle altre persone che sembravano sempre allegre, il rito del panino e del gelato, la ricerca di pietre preziose tra i sassi della spiaggia, aprivano un varco di meraviglia ed eccezionalità nella consueta solitudine. Poi, però, bisognava tornare e il ritorno era così più breve dell’andata! In ginocchio sui sedili dell’ultima fila della corriera, sfidava la nausea per poter vedere ancora il mare che, crudelmente luccicante, si allontanava da lei. La sera, cercava di manovrare i sogni per poter allungare ancora un poco quella libertà. A volte riusciva, ed allora era felicità pura, che dilatava quella rubata durante il giorno. Quelle giornate erano rare.
Di solito la mattinata della bambina passava tra i compiti delle vacanze e l’accompagnare la nonna a fare la spesa. Il pomeriggio lo trascorreva invece sul balcone, dove il nonno aveva costruito dei panchetti su cui regnavano spinose piante grasse, che circondavano il suo “salotto”. La mamma, quell’estate, le aveva regalato una seggiolina a dondolo di vimini, e la bambina amava dondolarvisi con forza, convinta che, un giorno o l’altro, la sedia si sarebbe levata in volo, portandola via. Dalla porta-finestra aperta poteva sentire la radio della sala e, in mancanza di questa, accendeva un transistor che troppo spesso perdeva la sintonia.
Cantava a voce spiegata, la bambina. Cantava sempre, conosceva tutte le canzoni in voga in quegli anni e anche quelle di decenni addietro, imparate dalla voce della nonna o da vecchi 78 giri. Cantava e parlava da sola, inventandosi personaggi o raffigurandosene di veri, spesso celebrità o protagonisti di libri o film che aveva amato. Si impegnava in dialoghi elaborati, provava battute spiritose, rideva di gusto a quelle – immaginate – che le venivano rivolte. Ascoltava compiaciuta i complimenti che le venivano offerti dai suoi affabili e invisibili interlocutori, diversissimi tra loro ma accomunati dall’amore incondizionato che nutrivano per lei. Questo le bastava per illudersi di compagnia.

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L’uomo elegante

Quel pomeriggio il caldo era insopportabile. La bambina preparò con cura la scena. Dispose la seggiolina a dondolo di fronte alla stufa di ghisa in miniatura. Appoggiò un casseruolino di rame sui cerchi, immaginati roventi, per cuocere un’invisibile e squisita pietanza. Ogni tanto apriva lo sportello della stufa per regolare la fiamma, rovistando con un lungo lapis altre matite colorate che interpretavano il ruolo di ceppi infuocati: non fosse mai che il desinare bruciasse! Eppure, nella sua fantasia, quella stufetta, che era appartenuta a sua mamma bambina, stava andando a tutta fiamma per preparare la cena all’ospite atteso.
Lo aveva visto per la prima volta la settimana precedente. La bambina stava cantando a pieni polmoni, convinta di avere davanti un pubblico adorante che reclamava continui bis, quando il suo sguardo cadde verso il marciapiedi di fronte al balcone. Un uomo la stava osservando. Tacque immediatamente, sentendosi avvampare come sempre le capitava quando, davvero, sentiva l’attenzione altrui su di sé. Si sedette sulla seggiolina a dondolo e finse di concentrarsi nella lettura di un libro. In realtà, continuava a sbirciare il tizio in basso.
Poteva a sua volta osservarlo bene: sotto il suo balcone c’era solo un mezzanino, quindi era piuttosto vicina alla strada, tanto che riusciva persino a sentire le conversazioni più ad alta voce in cui si intrattenevano i conoscenti che si incontravano, o le esclamazioni scherzose dei fortunati ragazzi dell’oratorio, quando uscivano accaldati dal campetto di pallone. Poteva anche distinguere con precisione l’abbigliamento dei passanti e le espressioni dei loro visi, che le raccontavano storie persino più interessanti di quelle dei romanzi o del cinema.
Così si permise il lusso di guardare l’uomo a lungo, in pieno agio: il bianco era il suo colore. Calzoni e giacca candidi, di lino, stazzonati elegantemente (“elegante” fu l’immediato aggettivo con cui lei ne definì l’essenza), una camicia immacolata, aperta sul collo, celato a sua volta da un foulard (di seta, immaginò la bambina) bianchissimo come la pelle, che le parve appena increspata di rughe sottili (forse anche queste solo immaginate), e come i capelli, fini e un po’ lunghi, che nascondevano appena un’incipiente stempiatura. Curiosamente, sandali francescani, indossati senza calze, lasciavano alla vista piedi magri che alla bimba parvero indifesi. Unica nota scura, gli occhiali da sole a proteggere iridi che lei ipotizzò sbiadite e timide.
Il tempo pareva scorrere con estenuante lentezza. Lui era ancora giù all’angolo quando la nonna la richiamò in casa per la cena. L’invito, solitamente accolto con entusiasmo dalla bambina golosa, stavolta le spiacque e di malavoglia rientrò nell’appartamento.

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Canta, che lui passa

Il pomeriggio seguente, quando lei uscì sul balcone, l’uomo era già lì. “Mi sta aspettando!” si convinse la bambina, intimamente compiaciuta. Poi, la consapevolezza della propria insignificanza la spinse a dubitare di quella presuntuosa certezza. Cominciò a dondolarsi nervosamente sulla sediolina, poi afferrò matita e album da disegno e prese a scarabocchiare distrattamente.
Cercava di non pensare all’uomo elegante, ma, tant’è, non riusciva a impedirsi di controllare cosa facesse. Certo che era proprio strano: si spostava impercettibilmente sul marciapiedi, ora intento a osservare la vetrina del droghiere, ora quella del panettiere; giungeva fino al negozio del ciabattino, poi, con passi lenti e strascicati, si riportava all’angolo, dall’attraversamento, dove meglio aveva la visuale del terrazzo dove era la bambina.
Il pomeriggio trascorse vanamente, con lei chiusa in un inconsueto silenzio, che non mancò di colpire la nonna, la quale addirittura si affacciò un momento dalla saletta per vedere se tutto andava bene. Il giorno dopo lui non c’era. Una fitta acuta di delusione attraversò la bambina: “Certo, non ho cantato” si disse, “magari voleva sentire le canzoni”. Così si risolse che, nel caso l’uomo elegante fosse riapparso, lo avrebbe intrattenuto con il suo sterminato repertorio.
Riapparve l’indomani. La bimba avvertì un tuffo al cuore, vedendolo. Tuttavia volle fare una prova, per assicurarsi che lui fosse davvero venuto per lei: spostò tutto il suo armamentario dalla parte opposta del balcone (che era stretto, ma molto lungo: prendeva più di metà facciata del palazzo). Se lui avesse voluto vederla avrebbe dovuto spostare il suo punto di osservazione. Cosa che l’uomo, sempre muovendosi lentamente e con noncuranza, fece.
“È qui per me, è qui per me!” esultò la bambina, sentendo crescere dentro di lei un senso di gratitudine e felicità, dolce e rassicurante come la zuppa di latte e Nipiol che le dava la mamma prima di dormire. Decise di esibirsi per lui e solo per lui. Attaccò a cantare, instancabile, tutte le canzoni che conosceva, alternando le più recenti a quelle d’antan. Cantò a voce così spiegata che, a un certo punto, la nonna venne a sgridarla e la trascinò in casa, incurante delle sue proteste e delle implorazioni.
“Chissà se mi aspetterà” si chiese affranta la bambina. Quando, un’ora dopo, le fu concesso di tornar fuori, lui non c’era più.

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Dove vanno a finire i palloncini?

La mattina seguente chiese e ottenne di non uscire a fare la spesa. Disse che si sentiva stanca, che non stava bene. In realtà voleva preparare un nuovo gioco: le avevano comprato una pompetta per gonfiare certi coloratissimi palloncini che erano inclusi nella confezione. Ancora disperata per la reclusione del giorno precedente, aveva meditato una delle sue tante fughe statiche (a volte decideva di naufragare, usando come zattera la cassapanca dell’ingresso; altre volte piazzava un materassino gonfiabile in fondo al corridoio e si trovava in una soffitta di Parigi a disegnare cani vagabondi o in un rifugio durante la guerra ad ascoltare il fischio delle bombe che cadevano; altre ancora si nascondeva nello spazio tra un alto “settegiorni” di mogano e il muro della camera da letto, convinta di aver trovato la porta per un mondo parallelo, dove lei “recitava” soltanto la parte di G., conscia di essere tutt’altra persona, forse un’aliena, forse un fantasma).
Adesso aveva deciso che sarebbe davvero volata via. Cominciò a gonfiare furiosamente tutti i palloncini, fino a occupare completamente il suo “salotto” sul balcone; quindi, rubato dal cassetto di cucina uno dei tanti gomitoli di spago che il nonno, maniacalmente, arrotolava e conservava, iniziò a legare i palloncini ai braccioli della sediolina, allo schienale, alla base dondolante di essa. “E’ la mia mongolfiera”, si ripeteva soddisfatta. “Volerò via”, si convinceva entusiasta.
Finito il lavoro, rientrò in casa per posare i resti del gomitolino e per prepararsi un sacchetto di provviste (“Mi venisse fame durante il viaggio…”, si disse previdente). Al pomeriggio, l’avventura poteva cominciare. Si mise in postazione e attaccò a darsi una serie di energiche spinte per dondolare sempre più forte. Aveva una corta gonnellina a pieghe che si sollevava a ogni spinta e l’aria che le saliva su tra le gambette le dava davvero l’ebbrezza del volo sognato. Fu allora che lo vide.
Questa volta non fingeva neppure di essere interessato ai detersivi in esposizione dal droghiere. Aveva il capo decisamente volto all’insù e la guardava, attraverso le lenti scure. Stupidamente, lei ne fu felice, prima ancora che sorpresa, e manifestò l’eccitazione provata dandosi una spinta ancora più forte delle altre. Si sfracellò sulla ringhiera. Si mise a piangere indecorosamente, mentre sentiva un grosso bernoccolo formarsi sulla fronte. Richiamati dal pianto della bambina, i nonni uscirono sul terrazzo e, come sempre, mentre il nonno si disperava prefigurandosi la morte della nipotina per materia cerebrale dispersa, la nonna si assicurò della sua permanenza in vita tirandole un ceffone per averla fatta spaventare. Il pomeriggio si concluse in cucina, con, appoggiata sul bernoccolo, una borsa del ghiaccio meno fredda della morsa che sentiva intorno al cuore.

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Chi sei?

Il giorno dopo l’uomo elegante non venne che per pochi minuti. Poi un signore parve dirigersi verso di lui, con l’aria stupita di chi non si immagina di trovare una persona in un certo posto, e l’uomo girò con imprevista velocità sui suoi tacchi e si allontanò in direzione opposta. La bambina intanto fantasticava su di lui. Chi era mai quell’individuo tutto bianco che improvvisamente era capitato nella sua vita? Forse un angelo che voleva difenderla da tutta l’immensa sofferenza che sentiva? Forse il fantasma di qualcuno che aveva abitato in quella casa prima di lei e che ora controllava i nuovi proprietari? E se invece fosse stato… (era un’ipotesi così straordinaria che quasi aveva timore a formularla) … e se invece fosse stato il suo vero padre (uno nuovo, non quel mostro cui minacciavano di consegnarla quando era cattiva) che, finalmente, aveva deciso di rivelarsi e di reclamarla a un nuovo e insperato affetto?
Doveva convincerlo a manifestarsi, a venirla a prendere, a regalarle una vita normale, serena! Ecco perchè quel pomeriggio stava cucinando per lui, su quella stufettina di ghisa, infiammata di matite colorate. E lui venne. E lei, perso ogni ritegno, appoggiò i piedini sul bordo superiore della ringhiera, nel tentativo di dondolarsi meglio, di farsi meglio vedere. Riuscì così a spingersi con forza ma lentamente, e rimase così, appesa a quel bordo, incerta se parlare o aspettare un suo cenno, il suo consenso. E mentre lei si dondolava, patetica scimmietta senza pudore, lui la osservava, immobile, impietrito, senza parole da dire, senza gesti da fare. La fissò a lungo, intensamente, le mani in tasca, come stranito. Quindi si riscosse, abbassò lo sguardo e si allontanò.
La bambina scese da quel suo trespolo, provando improvvisamente un senso di vergogna, di disillusione e di rabbia. Per qualche giorno preferì giocare in casa, nonostante il caldo. Dalla finestra della sua stanza lo vide ancora, un paio di volte, attendere pazientemente ma vanamente la sua comparsa. Poi, forse stancatosi a sua volta di quel gioco, l’uomo elegante non tornò più.
Fu quell’estate l’ultima volta che la bambina credette di potere volare.

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