Bancomat. Che c’è di più semplice? Saldo e ultimi movimenti. Poi ritiro 500 euro. Molto bene. Sono moderna e disinvolta. Anzi, ricarico il cellulare. Consumo poco perché comunico solo tramite sms. No. Alt! Ferma. Clangore. Una signora, palesemente straniera, cerca di entrare in banca. Una voce metallica la avverte, in italiano. La signora insiste, anche la voce. Riinsiste. Rivoce. Metallica.
Ho in testa una frase in inglese precisissima, che risolverebbe il problema, ma non posso che mostrarle col dito la cassetta dove depositare oggetti metallici per favore. Inoltre le agito davanti al naso un mazzo di chiavi, non presumo nasconda pistole in borsetta. La signora ringrazia, se ne va: forse non ha capito. O aveva la pistola? Intanto ho scordato la password. Anche il mio numero di telefono. Anche il mio nome. Esco.
Ora mi aspetta un compito semplicissimo. Viavà spray antimacchia. Dal mio ferramenta e venditore di detersivi non c’è musica. C’è un signore che parla forte, ma il commesso mi conosce, viene vicino, gli sussurro la mia richiesta. Lui sussurra di rimando: “Viavà finito”. Disastro. Questo non lo dico, lo penso e basta; invece mugolo: “Io no Supermercato, lì musica”. Lui capisce e mi dice: “sgnnnnaaaaaziomiaoolarienzo” tre volte, finché non gliela ripeto come l’ho sentita. Allora scandisce. Giù per Cola di Rienzo c’è un altro ferramenta, più grande. Che gentile: mi fornisce persino l’indirizzo della concorrenza, lo fa perché ha pietà di me.
Eccomi arrivata in un balzo. Tv a palla, fila al banco. Ahi! Faccio con la mano il gesto di chiudere una manopola. Mimo con la bocca la parola spegnere. Non afferrano, cominciano a mostrare le prime espressioni dubbiose: questa è matta. Pronuncio senza suono la frase essenziale: “mi- fa-male-rumore”. Cazzo, ha capito. Spegne. Gli sorrido, dico a voce normale “grazie”, lui sorride. Mi metto in fila. Il signore prima di me ha una voce baritonale e stentorea. Ahia. Il signore stentoreo finisce, il proprietario del ferramenta mi fa cenno, tocca a me. Chiedo “Viavà”, e approfitto del silenzio per spiegare la mia piccola, curiosa, trascurabile invalidità. Il proprietario mi guarda dolce, e mi promette che, d’ora in poi, appena vede la mia faccia, spegne subito il tv. Come sono fortunata. Oggi non penso MORIRE. Non ci penso affatto. Torno a casa felice, mi metto al computer, e scrivo queste parole. La soprano del piano di sopra – o è contralto? – comincia gli esercizi che rimbombano giù per tutta la tromba delle scale, e dentro il cortile. Chiudo le porte. Lei mi segue. Ora lascio il computer e mi chiudo in bagno. Indovinare che parola penso. Devo uscire, non resisto. Potrei approfittarne per andare dall’ottico – gli occhiali vecchi sono rigati. Ma l’ottico ha tutte le pareti a vetro, temo che starei male, meglio aspettare quando qualcuno mi accompagna. Tra quindici giorni?
Allora andrò in tintoria, lei quando mi vede spegne subito la radio, e tutti i vestiti appesi assorbono i rumori. Ciao computer, a dopo. Ma fuori dalla tintoria c’è una macchina cui va a mille la sirena dell’antifurto. Poi smette e io dico svelta “ecco la giacca di pelle”, poi riprende, taccio, la tintora dice: “io questi li ammazzerei tutti”, io faccio ripetutamente sì sì sì con la testa. Pago, esco, corro dalla parte opposta della sirena – me la indica la tintora, io non capisco l’origine dei suoni. Beh non è l’assenza di stereofonia il peggiore dei miei problemi. A casa la cantante tace (buon Dio falla tacere per sempre, dalle l’eterno riposo, dammi due ore di silenzio, dammi il permesso di parlare. Ciao Dio, non sei granché come interlocutore, ma lo sappiamo da un pezzo).