Una volta uscivo. Andavo a lavorare alle otto del mattino. Portavo in giro mia madre perché lei potesse vedere la città. Avevo i figli in auto e gli compravo scarpette con i lacci, coni che si scioglievano, peluche bianco-neri, pigiamini di ciniglia. Andavo dal parrucchiere e poi alle riunioni per lavoro, indossavo gonne strette e cappotti dalle spalle imbottite. Aprivo l’ombrello, compravo riviste, guardavo le mie finestre dalla strada quando ritornavo a casa, ne vedevo le luci accese. E aprivo la porta con la chiave. Una porta che non ho più aperto
Mio figlio per la prima settimana mi ha portato due suoi amici milanesi ospiti. La mattina io “pretendevo” guardassero la vallata e le nuvole sulla cima dell’Etna lontana e i fiocchi di nebbia sugli Iblei celesti. Poi mangiavano al bar cannoli o brioche con gelato o torta Savoia e andavano in campagna subito dopo e assistevano ai lavori. Portavano magliette a mezze maniche e ogni tanto gli veniva sonno per la tanta aria presa. A pranzo gli facevo trovare gli anellini con le melanzane e la salsiccia nostra e i ravioli di ricotta e il sole inondava la tavola e mio marito parlava troppo di storia e dovevo interromperlo e lui mi guardava feroce. E dopo aggiustavano con mio figlio tutto ciò che non funziona in casa: tubi e rubinetti o fili elettrici e filtri di lavastoviglie. E uscivano per salire sul campanile della cattedrale barocca, amore grande di mio figlio sin dai suoi primi anni di vita, e la sera si faceva prima rosa sulla città sottostante e la pietra si addolciva nel suo grigio monotono. La cena era tipica, il vino appena stappato, io ridevo, mio marito a tratti si incavolava, mio figlio ci faceva dimenticare tutto, i fichi d’india rubino, le mandorle tostate, la ricotta con la cannella. Mi veniva una stanchezza molle, il loro parlare nel milanese elegante, le voci mai alte, la loro città nordica da sempre amata da me. E andavo in camera più serena, i loro racconti, e quelli nostri. Mio figlio con i capelli mai pettinati. La felpa e la barba lunghissima e nera nera. Buonanotte, dicevo. E spegnevo la luce
Sono piccole cose, lo so. Lo so
Ora i monti di fronte casa mia hanno tratti di rimboschimento, la città si espande troppo – il suo profilo è cambiato – alberi cresciuti coprono la vista dei palazzi, si piegano sulla strada, alcune ville distruggono il paesaggio, le vie hanno negozi nuovi e orientali o vani abbandonati, le auto nomi differenti, i palazzi colori sgargianti, la stazione è vuota, il treno passa solo due volte sui binari che vedo dal mio balcone, la vallata è inondata dal verde incolto, i campanili non si stagliano più nel cielo e il suono delle loro campane non si sente. Io non viaggio da almeno 25 anni, da allora non vado in un albergo: il piacere di scorgere una stanza dal letto immacolato, il panorama insperato oltre le vetrate, la colazione col suo profumo, il risveglio fra lenzuola fresche. E il mattino da iniziare in luogo diverso. Tutto è successo, e gli anni sono trascorsi veloci e pure lenti, e io devo aver perso tanto. Tanto. Mentre mi aggiravo in queste stanze credendo di vivere. Inconsapevole, forse. Forse