Oggi ho camminato sugli occhiali. L’ultimo paio. Quattro giorni or sono, montando in auto, ho poggiato una natica sulla montatura gialla nascosta in tasca. Sono trascorsi otto giorni dall’infornata con il timballo di occhiali blu, quindici dalla sosta prolungata in ghiacciaia di un paio di occhiali rossi, quaranta dal risucchio, giù sotto la fogna cittadina, capitato agli occhiali tartaruga. I favoriti.
Ora non ho altri occhiali. Ascolto ma non guardo. Parlo ma non guardo. Sogno ma non guardo. Vivo ma non guardo. Guardo ma non guardo.
Il giorno si colora di un bianco algido. Io passo sicuro tra i ricordi di ciascuna stanza.
All’improvviso tutto cambia. Un ginocchio sbattuto con forza contro uno spigolo dona nuova forma all’oblio. Lascio la casa, vago, ma rimango assiso. Mi accorgo così di una strada mai praticata. Una strada lasciata ai viandanti o ai cicloamatori. Conosco il luogo in cui mi porta.
Mondolfo. So chi vi ritorna. Io bambino. Dopo pranzo misuravo la distanza tra i pioppi contando i giorni mancanti alla maturità: “quando non avrò bisogno di occhiali, quando sarò alto, dotato, malinconico. Quando sarò tutto mio papà”.
Tornammo a Roma con la Fiat guidata da mamma. Gli occhiali non si sono più trovati. Sono spariti. Sulla strada tra i pioppi, può darsi, in compagnia di una o più vocali il cui suono ancora mi tortura.