Correre a MonteCarlo è come correre in bici dentro casa, diceva Nelson Piquet. Se però domandate ad un pilota quale Gran Premio vorrebbe vincere, vi risponde quello di Monaco: è “IL” Gran Premio per eccellenza.
Ha una nascita tutta sua: perché l’Automobil Club di Monaco potesse far parte di quella che poi diventerà la prestigiosa F.I.A., bisognava che all’interno del territorio monegasco si svolgesse una competizione automobilistica vera e propria.
Detto fatto, il 14 aprile 1929 il principe Pierre di Monaco aprì il circuito del 1° Gran Premio di Monaco, il cui vincitore fu l’inglese William Grover detto “Williams”, pilota di una Bugatti 35 B. Da allora il circuito è rimasto più o meno invariato -a parte l’aggiunta di due chicanes- e il GP di Monte Carlo rimane avvolto nella sciarpa di seta della leggenda, ma la Formula 1 è cambiata e forse non in meglio.
Chi a Monaco ci è nato e cresciuto ricorda i Gran Premi degli anni ’70, quando, ancora ragazzino, sul tetto a terrazzo del condominio in cui abitava vedeva la partenza delle auto e a gara terminata scendeva nei paddock e camminava fra i piloti (che magari capitava ti prendessero in braccio e ti facessero sedere sulla loro monoposto, regalandoti un’emozione che ti saresti portato dietro per tutta la tua esistenza). Rammenta che i corridori li trovavi per strada perché erano “umani”, mentre oggi sono diventati divi inavvicinabili.
Girano troppi soldi, vociferano i nostalgici dei tempi in cui i campioni erano ancora gente come noi, solo con qualche grado di incoscienza in più perché per spingere le auto di allora a certe velocità un po’ incoscienti bisognava esserlo.
Ora è tutto computerizzato: si deve saper tenere il volante in mano, certo, ma il resto lo fa la macchina.
Con questa Formula 1 potrebbero correre anche delle scimmie, disse Niki Lauda tempo fa, con quel suo tipico cinismo.
Sinceramente a Monaco non ho visto scimmie guidare delle automobili da corsa ma non sono riuscita ad entrare negli stand (ormai peggio di Fort Knox) e ho saputo di un pilota famoso che ha respinto un ragazzino che gli domandava l’autografo. Così, benché il circuito di Monte Carlo io in questi giorni lo abbia avuto sotto casa, invece di affacciarmi alla terrazza ho rivisto “Grand Prix“, il film del 1966, con Yves Montand e la regia di John Frankenheimer, che rievoca una Monte Carlo magnifica e mitica ormai inesistente. Non ho vissuto quegli anni ma ne ho nostalgia, mi manca ciò che non ho mai visto e mai vedrò: i balletti di Louis Chiron, pilota simpaticamente gigolò che, ormai anziano, quando dava il via alle auto danzava una danza tutta sua, probabilmente un po’ scaramantica; Lorenzo Bandini, che a Monaco morì durante la corsa del 1967 lasciando un grande vuoto nel cuore degli appassionati di Formula 1 dell’epoca e mi dispiace anche non veder corrrere Graham Hill, che entrò nel mondo automobilistico come meccanico, facendo la gavetta (parola quasi scomparsa dal vocabolario), ma non tardò ad arrivare al posto di guida e del circuito monegasco fu re indiscusso per diverse volte. Mi mancano Gilles Villeneuve e Ayrton Senna, icone dei piloti romantici, gli ultimi di quelli che quando entravano in auto ti facevano sognare, per la maniera tutta loro di guidare quei bolidi e per il modo che avevano di correre la vita, anche a costo di rimanere senza fiato.