Immaginate di essere un giovane calciatore e di affrontare una selezione sotto il giudizio di Maradona. Immaginate, anche, di trovarvi a effettuare quella prova sul campo di calcio dove esordì Pelé. Così conobbi Gustav Leonhardt, ero a Rovereto, partecipavo a un concorso musicale di cui presiedeva la giuria; le prove pubbliche si svolgevano a Palazzo Todeschini, il luogo stesso ove suonò Mozart bambino nel primo viaggio italiano. Entrò Leonhardt: aveva una figura che si imponeva per naturale eleganza, esprimeva un’autorità austera, nordica, luterana; ne eravamo tutti intimoriti. Iniziò la prova, “il Maestro dei maestri” seguì con attenzione l’esecuzione sullo spartito e fu come sottoporsi vivo a una autopsia. Al termine presi il coraggio per parlargli, temevo il giudizio e la sua sconfinata competenza. Con mia sorpresa lo sguardo, penetrante e severo, fece spazio a un carattere dolce: mi parlò con comprensione, apprezzando la mia esecuzione e trattandomi alla pari; fu una lezione unica. A dispetto della sua immagine, ascetica e sobria, mi apparve un uomo aperto, affabile.
Dal 16 gennaio scorso il suo clavicembalo non suonerà mai più; ne avrà cura la sorella Trudelies altrettanto nota musicista.
Immenso clavicembalista, organista, direttore, padre dello studio e della riscoperta della musica antica nelle esecuzioni secondo prassi originali. Si potrebbero riempire pagine intere per elencare i suo meriti di concertista, studioso e insegnante: monumento nel trio con Bijlsma e Brüggen, così come nella prima assoluta dell’incisione integrale delle “Geistliche Kantaten” di Bach.
Gustav e Sebastian: binomio indissolubile, talvolta la stessa persona. Impersonò, da attore, il “Kantor” nel film “Cronik der Anna Magdalena Bach” ma, da musicista, lo interpretò tutta la vita. Piangiamo la scomparsa di un genio universale e, pure, il fatto che la notizia in Italia sia passata quasi inosservata.