Trilogia – due
Sapevo di non dover passare di là. Ho rivisto la casa, e ho fermato il mio tempo.
Resiste impavida circondata da orrendi condomini, scempiata dal tempo di quell’abbandono forzato, lasciata lì per continuare a piantare coltelli nell’anima di chi come me vive ancora in carne viva.
Le finestre sono chiuse, una delle imposte pende, scorticata dal sole e dalla pioggia. Il giardino è una selva, il cancello arrugginito. Sul portone non c’è più la targa di ottone, le fioriere sono a terra, spaccate nella furia che accompagnò quella notte.
Il nonno usciva dallo suo studio alle settemezza precise, guardava l’orologio e diceva Accomodiamoci. Come a un segnale prestabilito, quella parola provocava il turbinìo della comparsa dalla cucina della cameriera e della zuppiera, il rumore delle sedie, Mettetevi tutti al vostro posto, Avete lavato le mani, il trambusto di piatti e bicchieri.
Il nonno era bellissimo, alto, di bel portamento. Era incanutito precocemente ma questa sua particolarità, raccontava nonna, lo aveva reso ancor più attraente per le coetanee. Ma ha scelto me, concludeva soddisfatta la nonna, fiera e orgogliosa di essere entrata in famiglia ancora ragazza.
Quando mamma si sposò, i nonni decisero che la casa era abbastanza grande anche per i figli, e per tutti i nipoti che sarebbero arrivati. Quella casa era come un guscio che ci teneva uniti, e che ci proteggeva. Ma non andò così, e non ci protesse abbastanza.
Non avrei dovuto passare di qua. Eravamo tanti. Eravamo felici. Eravamo.