Oggi, ho portato a compimento qualcosa che nessuno, sono sostanzialmente certo, ha fatto più da decenni, forse da un secolo. Un gesto antico, apparentemente anacronistico, che sospetto abbia un significato rivoluzionario.
Ho messo a dimora, dopo averle innestate quattro anni fa, tre piante di castagno di un genere che è quasi scomparso. Si tratta di una varietà antichissima (l’ho trovata citata in un testo di frutticoltura del 1700 ed era già considerata una produzione storica) tipica del territorio del basso Piemonte e della Liguria di ponente.
Il suo nome è “Fusèra”, e va pronunciato con la “u” stretta alla francese e la “e” aperta. Un tempo, non c’era cascina che non avesse nel suo castagneto famigliare tre o quattro di queste piante preziose. Hanno sfamato generazioni di contadini quando per passare l’inverno si mangiavano castagne e latte a pranzo e latte e castagne a cena. La dimensione dei frutti è media, la pianta di discreta vigoria e la produzione non abbondantissima, ma costante. Il sapore, in ogni caso, è superlativo. Se allevate con una buona esposizione al sole, come per esempio in un prato, queste castagne sono già dolcissime nel momento in cui escono dai ricci, senza richiedere un’eccessiva maturazione. Una delle loro caratteristiche peculiari è di avere una pezzatura regolare, uniforme, particolare che le rende adattissime alla cottura in padella (sono cintura nera 5° dan di caldarroste).
Quindici anni fa, quasi per gioco, prelevai alcune marze da uno di questi castagni che trionfava, splendido, accanto alla casa di un mio zio. Per chi non è esperto di innesti, va detto che la “marza” è la porzione di ramo, prelevata appunto a marzo, che verrà poi inserita sul tronco di un soggetto selvatico per dar vita ad una nuova pianta domestica. In genere, l’innesto del castagno viene eseguito con la tecnica “a zufolo detto anche ad anello”, ma io provai invece con il sistema “a doppio spacco inglese” e ottenni un risultato insperato, così che l’attecchimento avvenne con ottima vigoria su tre distinti polloni di una pianta selvatica.
Fu un’operazione di rara, involontaria tempestività, perché due anni dopo, insieme al mio compianto zio, quella bellissima e rigogliosa pianta morì con inusuale rapidità.
Il miei innesti si sono sviluppati da allora con regolarità e cinque anni fa hanno iniziato a dare i primi (pochi, agognati) frutti. Attualmente, la mia “Fusèra” ha raggiunto i sei metri di altezza e mi auguro possa progredire nel suo costante sviluppo.
Cinque anni fa, mi capitò di parlare di questa circostanza con un amico:
– Ah, la Fusèra! – disse lui, annuendo con energia. – Ne ho un paio su, nella valletta dei castagni, che avranno centocinquant’anni. Erano già grosse così quando mio nonno…
Gli chiesi di poter prelevare qualche marza da quelle antiche piante e lui mi condusse nel piccolo frutteto immerso nel bosco.
C’erano una decina di castagni antichissimi, con i tronchi grigi come la pietra e tanto grandi che non bastavano due persone, per abbracciarli.
Però…
– Lo sai che le due Fusère son belle che seccate? – esclamò, facendo scorrere una mano su quella corteccia ormai priva di vita.
– Come quella di mio zio… – commentai.
– Per forza. Non c’è più nessuno che le curi – considerò lui a mezza voce. – Io per primo… mah, lasciamo perdere.
– Io l’ho salvata per caso – dovetti ammettere.
– Non ha importanza, – mi disse, risoluto – so dove possiamo trovarne quante ne vuoi.
Partimmo in macchina e cominciammo a fare il giro delle colline e delle vecchie cascine.
Non ce n’era più una.
– Sì, ne avevo nel bosco, – diceva qualcuno, grattandosi la testa – ma saranno dieci anni che sono seccate.
Altri, come il mio amico, erano convinti di averne ancora di vitali, ma ci accompagnavano davanti ai soliti tronchi rinsecchiti, spesso assaliti dai rovi.
Le vecchie varietà, già debilitate dal cancro del castagno e poi preda per anni del Cinipide Galligeno non avevano sopportato tutta quella prolungata incuria. Le piante domestiche si ergevano come spettri nei boschi, visibilissime da lontano per quei fusti enormi, corpi di giganti vinti dal tempo e dal disinteresse.
Dopo tre ore di inutili ricerche dovemmo ammettere che la situazione era a dir poco frustrante.
La “Fusèra” era merce introvabile.
Nei giorni successivi, provai a cercarla, per curiosità, tra i vivaisti. La maggior parte non sapeva nemmeno di cosa stessi parlando:
– La “Fùssera”? Com’è che ha detto?
Tutti, regolarmente, mi proponevano dei marroni. Per chi non lo sapesse, il “marrone” e la castagna sono solo lontani cugini. Il marrone ha la pellicola sotto buccia (termine scientifico episperma) che non rientra nella rugosità della polpa ed è dunque facile da asportare. Lo si usa in pasticceria e per fare, appunto i Marron glacé. La gente va dai vivaisti, vede dei frutti grossi come palle da tennis (esageriamo un poco) ed è convinta di piantare castagne. Poi cerca di fare le caldarroste e dice che fuori sono bruciate e dentro sono crude. Non hanno la cintura nera di caldarrostai e francamente ci fanno un po’ pena.
Intanto, la “Fusèra”, come altre mille antiche varietà di frutta, va rapidamente perdendosi. Immolata sull’altare della globalizzazione e del guadagno facile non interessa quasi più a nessuno. Partecipe, suo malgrado, della progressiva spaventosa riduzione della biodiversità. Così perdurando la situazione, l’agricoltura finirà tutta nelle mani di poche multinazionali che gestiranno semi e genomi di quello che farà più comodo all’industria, al commercio. A meno che non si inneschi e progredisca, invece, una rivoluzione culturale e colturale, un modo consapevole, antico e nuovissimo di pensare e di intendere la vita. Io, quest’anno, ho fatto un’altra dozzina di innesti. La “Fusèra”, per adesso, è salva.

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Bravo Federico. Quello che fai e quello che sei scalda il cuore.

è vero!
Grazie, almeno ci proviamo.
Complimenti davvero per questo modo antico e nuovo di intendere la vita! Riempie di speranza…
Grazie. Speriamo torni qualche sprazzo di consapevolezza. Ce n’è più poca, in giro.
A novembre, dopo decenni, ho riassaggiato la minestra di calde arroste (‘pailine’) e riso al latte di sordevolese memoria, con frutti raccolti a Varisella e poi a Condove: una squisitezza !
Aspettiamo la ricetta dettagliata. Io ho riportato agli antichi fasti la vecchia padella forgiata (pubblicherò foto) e sono pronto.
Bellissimo e – come ti è peculiare – bravissimo Federico!
Grazie. Sai come la penso: “Qui se laudat s’imbraudat” (Seneca o Sempliciotto da Bergamo, non ricordo).