Ho visto Nina volare

I Magazzini Fotografici di Napoli sono uno spazio no profit nel centro della città, tre sale alle spalle della Basilica di San Paolo Maggiore. Nascono nel 2015 dall’impegno e dalla visione di Yvonne De Rosa, fotografa e fondatrice di questa factory virtuosa.
Fino al 29 ottobre, i Magazzini espongono la produzione di due giovani fotografe, entrambe classe 1995. Si tratta di Corazonada, di Giulia Gatti, e Ho visto Nina volare, di Sara Grimaldi. Entrambi i lavori hanno avuto ampio riconoscimento in seno alla rassegna Ragusa Foto Festival 2023 e sono più che meritevoli di una diversione dal poco distante Decumano Maggiore, ma è di Ho visto Nina volare, che ho scelto di raccontare.
Sara Grimaldi ha fatto della fotografia un canale di ricerca espressiva in cui far confluire una doppia diagnosi: disturbo borderline di personalità e disturbo del comportamento alimentare. Se è vero che la follia è linguaggio e il sintomo il suo canto, Sara Grimaldi si fa traduttrice e traghettatrice di questo linguaggio, dalle sponde del mondo infero sino ai nostri occhi abituati alla superficie. Tradurre il disturbo in immagini è tentativo di guarigione, regalare queste immagini al mondo è missione anarchica, rottura degli stereotipi, il vero urlo utile.
La rassegna di Grimaldi esposta ai Magazzini Fotografici consta di una quantità esigua di immagini dal tratto allucinato, corporeo, parziale. Ecco l’ambiguità, l’assenza di confini nelle cromie o la prevalenza di poche di esse, le contrapposizioni. Il cielo si rovescia, le cose si rompono, l’ombra non si oppone solo alla luce, ma si erige nelle distese di buio. Esiste qualcosa di più scuro del buio, ci viene detto.
Frammentazione, corporeità e opposizione sono campi di espressione proposti e analizzati allo stremo, eppure in questa fattispecie trovano una conformità limpidissima e commovente.
La sequenza al muro si apre con una bimba che va sull’altalena. E’ proprio l’autrice che racconta allo spettatore di come un’immagine simile abbia funto da detonatore all’esplosione del suo malessere. E’ facile, pure per il visitatore meno aduso alla materia psicopatologica, cogliere la portata simbolica di quest’oggetto: oscillare di continuo da un mondo all’altro, da nevrosi a psicosi. Non luce o buio, ma luce e buio.
La serie si chiude con una casa, una casetta di carta che brucia, l’ultimo simbolo, l’omaggio a Hermes, il mito archetipicamente associato al disturbo border. Hermes il doppio, Hermes veloce, Hermes psicopompo, Hermes bugiardo, Hermes che distrugge ciò che ha creato. Perché Hermes non ha centro, non ha casa, è l’eterno viandante dell’eterno oscillare.

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