Non è forse un caso che a raccontare l’anima di Roma, della sua gente, del suo proscenio e del fascino più raccolto dei suoi innumerevoli misteri, siano stati soprattutto dei provinciali illustri, ivi trapiantati, che l’hanno detestata e pure intensamente amata.
Dopo D’Annunzio, la memoria corre a Palazzeschi e Gadda, Patti, Pasolini, Flajano, non senza menzionare i titoli di testa cinematografici di Fellini, Risi, Germi, Bertolucci e Scola.
Veri ‘romani’ costoro non furono mai né mai avrebbero potuto riuscire ad altro, se non mimare, ma non aderire a quella ‘belliana’, cattolica pigrizia che distingue il tono sentimentale della città unitamente alla sua proverbiale, quasi plumbea e tombale indifferenza.
Di quest’ ultimo aspetto si curò mirabilmente un romano vero e proprio, Alberto Moravia, nel suo romanzo più famoso (ma in genere in tutta la sua produzione letteraria). Moravia tuttavia non ebbe mai con Roma un rapporto empatico: proiettò un radiogramma anestetico della città, con l’io narrante che guarda da lontano e non partecipa affatto al dramma vitale dei suoi personaggi.
Borghese per antonomasia, il ‘romano’ Moravia non amava il popolo di Roma, come invece lo amò Gioacchino Belli, che pure avrebbe voluto dare alle fiamme il ‘monumento plebeo’ in versi riassunto nel suo ‘Commedione’.
A trasmettere pathos, sia pure controverso, ma pur sempre intensamente vissuto, furono dunque soprattutto i grandi provinciali, piuttosto che i nativi, chiamati a misurarsi con ‘Mamma Roma’.
Forse, l’unica penna di autentico ‘romano’ capace di adesione naturale allo spirito della città fu quella di Gabriele Baldini: che mise a frutto le doti di prosatore d’arte leggero e acutissimo per attraversare tante gioie, dolori e miserie umane con la vena scanzonata, il sorriso indulgente e sapienziale che è tratto tipico di chi, volente o nolente, è nato all’ombra del ‘Cuppolone’.