La danza si conclude su un campo in terra battuta dalle parti di Torvajanica. Era scappato dal Brasile con il suo immenso talento debole. È sovrappeso e spesso si piega sulle ginocchia. Per tutta la vita è stato un uomo in fuga sulla fascia destra, a schivare terzini, donne e whisky. Una carriera costruita sulle gambe asimmetriche. Sul campo in terra battuta si sta giocando una partita del torneo amatoriale dopolavoro. Meccanici contro macellai. Tutti sanno chi è. L’Alegria do Povo, il Chaplin del calcio, Manè Garrincha. Appena oltre la linea del fallo laterale una bottiglia di brandy per dissetarsi durante le pause. La sua squadra di macellai perde quattro a cinque. Non ha subito alcun fallo, i difensori si scansano, nessuno vuole prendersi la responsabilità di provocare una contusione al grande Garrincha, il bicampione del mondo, l’ala destra più forte della storia. Nessuna vergogna a giocare su un campo di periferia lontano migliaia di chilometri da casa. È solo il desiderio di scappare dalla realtà, saltarla a piedi uniti con le sue gambe sbilenche e il passo da clown. Si siede per terra, a due passi dalla linea di centrocampo, gli altri sono andati a casa. Chiude gli occhi, nella sua testa le azioni di una partita giocata forse millenni prima. La finale di coppa del mondo 1962 allo Stadio Nacional di Santiago del Cile. Brasile-Cecoslovacchia 3 a 1. Non segnò, ma fece tre assist. La partita più bella della sua carriera. Riapre gli occhi. Torvajanica non è Rio de Janeiro. La bottiglia di brandy è ancora lì. Un lungo sorso. In quel momento capisce che non è sbagliato il destino, è sbagliato il modo di affrontarlo in dribbling.