I malati immaginifici

Secondo un proverbio che mi son sentita ripetere spesso, amore e malattia non si devono nascondere.

Nessuno però, nel caso della malattia, mi ha mai recitato il proverbio che spiega cosa aspettarsi dopo averla esternata.
Non parlo di grandi dolori o patologie terribili, ma anche solo di un po’ di mal di testa, spossatezza, un abbassamento di pressione, un callo.
Così mi capita di buttarla lì per caso, magari per giustificare la faccia color betulla che ho quel giorno, e divenire ostaggio dei malanni del mio interlocutore, che esordisce sempre con “Ah, non me ne parlare!” e prosegue implacabile propinandomi la sua storia clinica completa. I più fantasiosi, per farmi capire senza equivoci che non posso competere, introducono nella narrazione altri guai, paralleli o collaterali, spiegandomi che avrò pure un po’ di mal di testa, ma loro hanno l’emicrania a grappolo e una recrudescenza di emorroidi, venuta a capitare proprio mentre ─ a causa di un’unghia incarnita che ha generato un’infezione, che li ha costretti ad assumere antibiotici che gli hanno causato la diarrea ─ erano già debilitati.
Ignorano, probabilmente, che è preferibile l’invidia alla pietà. Anche se non è la pietà che cercano, ma la vittoria.
A quel punto non mi arrischio a obiettare, neanche oso fiatare. Anzi, mi sento pure un po’ in colpa per aver osato lamentarmi del nulla quando loro sì che conoscono la sofferenza, e ne detengono il monopolio.
Vi sconsiglio, nel caso vi sia capitato di incontrare persone di questa specie, di evitare, se vi è morto un parente, un amico, un criceto, di informarli o peggio ancora esporgliene il dolore: potrebbero indurvi all’omicidio. Il loro.

 

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