I MURI DI BELFAST [Cose d’Irlanda #1]

Belfast è una città strana, tutto sommato non bella, ma affascinante da scoprire. Ci sono andato oramai una ventina di volte, e ogni volta quello che penso di aver capito si aggiusta un poco, vi si aggiunge un pezzettino. A Belfast mi piace portarci i ragazzi delle scuole, quelli che non hanno visto i muri, le divisioni, quelli che danno per scontata l’Europa che così scontata non era e non è. Spero sempre di dare loro una consapevolezza su quello che possono perdere, gli racconto di confini, quei confini che non hanno mai vissuto. C’è un modo di dire triestino, Andar baul e tornar casson, andare baule e tornare cassone, ossia andare in un luogo e tornarci senza averlo compreso. Questo succede alla maggior parte delle persone che visitano Belfast. I bus turistici li portano sotto il grande muro, lungo quasi due chilometri e alto dodici metri, che suddivide la parte cattolica dalla parte protestante. Scendono dal bus, mettono le firme sui murales e poi risalgono, magari per andare a vedere il museo del Titanic. I più hanno la sensazione che sia qualcosa di turistico, qualcosa di fuori dal tempo, conservato come ricordo. Vanno via spesso senza sapere che ci sono delle strade che attraversano il muro con dei cancelli che la sera vengono chiusi e non consentono il passaggio. Non sanno che a Belfast ci sono un centinaio di muri simili che paradossalmente vengono chiamati muri di pace, perché evitano il contatto tra le zone cattoliche e protestanti. Che poi non è uno scontro religioso, teologico, è solo una definizione per distinguere le due parti: da una c’è chi si sente legato alla Repubblica d’Irlanda, dall’altra chi si sente vicino alla regina.
Belfast mi ricorda il mio tema della maturità quando dovetti commentare una frase di Ignazio Silone: “La crisi della nostra epoca non risparmia dunque, nessun paese. Non ci sono più frontiere geografiche della pace, della libertà e della verità. Queste frontiere passano all’interno di ogni paese e nell’interno di ognuno di noi”. Belfast me la ha fatta prepotentemente ricordare, perché lì i confini si vivono ovunque, e i muri alla fin fine sono solo l’aspetto più evidente. I confini sono nel linguaggio, nei luoghi che si frequentano, nei colori dei vestiti che si indossano. Se si parla con un irlandese di una persona che faceva parte dell’IRA, l’Irish Republican Army, occorre usare la parola combattente. Parlandone con un unionista, occorre usare la parola terrorista. Il 12 luglio in tutta l’Irlanda del Nord si festeggia la ricorrenza della vittoria di Guglielmo d’Orange, il re protestante che sconfisse il cattolico Giacomo II. È il giorno dell’orgoglio britannico. A Belfast la mezzanotte prima, nelle zone protestanti si accendono dei roghi alti decine di metri, nei quali spesso in cima viene posta a bruciare la bandiera irlandese. Lo scorso luglio ci sono stato, volevo aggiungere un tassello per capire questa città complessa. Prima di andare a vedere l’accensione di uno dei roghi, ho passato la serata in un pub irlandese poiché quella sera c’era la partita dei mondiali tra Inghilterra e Croazia. Naturalmente gli irlandesi tifavano Croazia. Ho avuto la fortuna di entrare al pub proprio al momento in cui l’Inghilterra subiva un gol. Mi sono conquistato una Guinness offerta, ma soprattutto perché indossavo una maglietta dal colore giusto, il verde. Per passare poi dall’altra parte del muro ho cambiato maglietta, ne ho indossata una rossa, più adatta alla parte non irlandese. Questa è Belfast. I muri, secondo un progetto, dovrebbero venir tolti entro il 2023, ma sono i muri che attraversano le persone che difficilmente cadranno.

[Fulvio Rogantin]

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