A un certo punto dell’inverno nell’orto c’erano un sacco di verze. Allora la nonna diceva: «Facciamo i verzini?»
Aveva il diabete, ma era sempre una buona forchetta e cercava complici per togliersi qualche voglia. Nell’orto ci mandava il nonno. Lui ubbidiva brontolando, ma io vedevo che sorrideva sotto i baffi.
Procurata la verza, una bella verza grossa, tonda e croccante anche se non dell’orto, la lavo, apro delicatamente le foglie esterne e le metto a scottare nell’acqua bollente. Pochi minuti, in modo che si ammoscino un po’. Poi le scolo e le stendo sul tagliere per far scolare tutta l’acqua.
Intanto preparo una pestatina di aglio e prezzemolo che faccio rosolare in una teglia, con una noce di burro. Quando l’aglio è rosolato, ci butto dentro prima la salsiccia sbudellata, poi il macinato di vitello. A casa mia, quando ero bambina, si metteva solo la salsiccia; si uccideva il maiale, e ce n’era abbondanza. Il vitello macinato, invece, era una roba da signori.
Quando la carne si è ben stemperata, la faccio dorare un pochino e aggiungo la mollica del pane che avevo salato e ammorbidito con un po’ di latte. Faccio bollire per qualche minuto, quindi lascio raffreddare. Quando è tiepida, metto il parmigiano grattugiato e mescolo.
Il parmigiano lo andavamo a prendere al casello, che sarebbe il caseificio, con il libretto del latte. Da una parte, il casaro segnava ogni mattina e ogni sera il latte che gli si portava, dall’altra il formaggio, la ricotta e la panna che si prendeva. Ogni tot facevano i conti. Bisognava cercare di non superare le vendite con gli acquisti. Spesso sentivo dire ai grandi: «Lo compriamo poi, quando prendiamo i soldi del latte».
Adesso è ora di preparare le foglie cotte della verza. Ci metto sopra un bel cucchiaio di ripieno e le chiudo formando dei fagottini. Non servirebbe, ma la nonna li legava col filo bianco da rammendo, lo stesso che usava per tagliare le fette di polenta. Li lego anch’io, e li metto su un piatto. Intanto faccio rosolare qualche foglia di cipolla, con una noce di burro e due cucchiai d’olio. La cipolla, una volta rosolata, la tolgo, e adagio delicatamente i verzini nella padella. Vanno fatti passare bene da ogni lato, piano piano, ché non si rompano. A questo punto aggiungo il concentrato di pomodoro sciolto nel brodo e lascio cuocere lentamente, in modo che i verzini si impregnino di sughetto e il sughetto di verza.
Sulla tavola ci vorrebbe del vino rosso. Il vino che pigiava il nonno a piedi nudi nel bigoncio, con i pantaloni di fustagno fatti su. Ci vorrebbe quell’aria di festa di quando venivano i vicini e poi noi si andava da loro.
Quando ritorno a casa dai miei, invece, di quelli di allora non c’è quasi più nessuno. Dalla porta della cantina sale ancora quel buio fresco, l’odore di mosto che riempie le narici; entra nel cuore, senza preavviso. E lo ubriaca.