una volta le chiamavamo bufale…
“E’ l’insieme delle modalità con cui, pur non ricorrendo a un’occupazione militare, un paese realizza un’ingerenza in un paese straniero puntando a impadronirsi dei suoi asset strategici, e a inquinare i circuiti di comunicazione con opere di disinformazione non spontanee, ma coordinate da una strategia unica”. Dall’intervista fatta dalla giornalista Valeria Valentini alla vicedirettrice del Dipartimento informazioni per la sicurezza, Alessandra Guidi, uscita su Il Foglio il 13 giugno. La cito testuale, perché mi pare la definizione più precisa che ho finora trovato.
Vediamo di renderci conto di cosa significa, dei pericoli che stiamo correndo, dei molti anni dai quali la guerra ibrida è cominciata, mentre gli italiani non se ne accorgevano e cascavano nelle trappole seducenti e velenose delle fake news, sparse a piene mani da canali Tv e attraverso internet.
Noi, che per ragioni diverse stiamo molto sui social, ne siamo stati il primo obiettivo, e in molti casi lo strumento. Uscivano dei siti, ben fatti e dall’aspetto autorevole, che diffondevano notizie false, deliranti, surreali – ma anche cariche di malignità. Se provavamo a smentirle, venivamo assaliti da profili diversi, con nomi diversi, ma con gli stessi contenuti. Sembravano dei matti, diffondevano “bufale” – li chiamavamo troll, hater, poi abbiamo cominciato a chiamarli bot – erano organizzatissimi. Potenti, insidiosi. Hanno avuto molta influenza, non solo in Italia, ma in tutto quello che viene chiamato Occidente, ovvero in paesi, importanti e influenti, dove vige, con infiniti difetti e limiti, la cosa chiamata Democrazia. Paesi imperfetti certo – ma in grado di godere dell’altra cosa, che si chiama Libertà.
Perché qui la posta in gioco è la nostra libertà. Anche di credere in fole dementi, certo. Anche di sparare sciocchezze all’impazzata, e come no. Ma c’è un limite. Che è stato superato da un pezzo. Ora sembra che ci si stia rendendo conto del patatrac, e si cerchi di correre ai ripari.