Il cane tedesco

Sei cattiva, una ragazzina cattiva. Sarai punita. Hai disubbidito. Hai disubbidito al tuo babbo.
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L’acqua scrosciava senza tregua sul telone che copriva il carro. Il temporale che si era abbattuto per ore sul paese si era trasformato in un diluvio senza lampi e il cielo era una coltre scura che aiutava la loro fuga. Il capo famiglia Leone De Benedetti, la moglie Olga, la figlia più grande Sara di tredici anni, e le due più piccole, Micol di nove e Ada di cinque, si stringevano in un abbraccio per trovare conforto al freddo e alla paura.
Nell’estate del 1943, in seguito all’armistizio e all’occupazione di Pitigliano da parte dei tedeschi, le famiglie ebraiche residenti nella piccola cittadina della maremma toscana avevano dovuto scegliere se consegnarsi alle Autorità, con il rischio di essere inviate al confino o alla deportazione, oppure nascondersi. Le recenti festività di Rosh Ha Shanah (1) e di Yom Kippur (2) erano state funestate dalle discussioni tra Leone e la moglie sulla scelta da compiere: consegnarsi o fuggire. Leone, uomo di solito fedele alle regole, decise per la fuga.
In una fredda notte di novembre la famiglia De Benedetti fu costretta ad abbandonare la propria casa, lasciando lì gran parte dei loro averi. Ognuno prese con sé soltanto il necessario per i primi giorni. Trasgredendo al divieto del babbo di portare Argo, il suo cucciolo di tre mesi, Sara lo nascose in una piccola borsa dove ora dormiva accanto al libro di preghiere della sua padroncina.
Erano diretti ad un podere fuori dal paese di proprietà dei Fortunato, contadini del posto e clienti del negozio di tessuti del signor Leone, che si erano offerti di dargli rifugio. Il carro procedeva con difficoltà sulla strada sterrata trasformata in un torrente di fango, che rendeva più lungo e arduo il percorso. La pioggia continuava incessante e si era alzata una spessa nebbia.
Dopo oltre un’ora di viaggio, verso la mezzanotte arrivarono al podere dei Fortunato. Mentre la famiglia De Benedetti scendeva dal carro, il diluvio era mutato in una pioggia sottile che penetrava gelida nelle ossa non dando tregua al freddo. Leone prese le poche borse e tenendo strette a sé la moglie e le figlie si diresse verso l’entrata della casa.
I Fortunato, Ernesto e Letizia, una coppia senza figli, erano in allerta da alcune ore. Appena videro da dietro le imposte socchiuse di una finestra l’arrivo del signor Leone, uscirono per andare ad accoglierlo.
“Per stanotte dovrete stare nella stalla, poi troveremo un posto meno scomodo. Abbiamo lasciato dei pagliericci e delle coperte, acqua e un filone di pane. Lo so, non è molto” disse Ernesto. “Ma oggi, alcuni contadini di un paese vicino che mi aiutano nel podere, dopo una giornata di lavoro erano affamati e sono rimasti a cena finendo il poco che c’era. Erano talmente stanchi che mi hanno chiesto di poter rimanere a dormire in casa da noi” chiarì a disagio. La risposta di Leone fu un abbraccio e un grazie bisbigliato tra le lacrime.
La notte trascorse tranquilla. L’unica a non abbandonarsi al sonno fu Sara, terrorizzata che il padre si accorgesse della presenza di Argo. Ma il cucciolo, sfinito dal viaggio, aveva dormito senza interruzioni.
L’alba era appena spuntata e l’adolescente decise di portare all’aperto il cane per i suoi bisogni, strano avesse resistito così tanto senza farli. Davanti a sé ammirò il lucore del cielo, promessa di una giornata limpida e allietata dal sole. Per sicurezza si allontanò di parecchi passi. Aiutò ad uscire dalla borsa il cucciolo che la ringraziò con una serie di salti, rinculi e corse sfrenate, movimenti che la ragazza amava chiamare danza della gioia. La felicità di Argo era la sua felicità.

Mentre tornava verso la stalla, Sara vide il babbo e il signor Ernesto che confabulavano tra loro.
“Da oggi, durante il giorno potrete stare in casa ma dopo cena per voi sarà più sicuro rimanere nascosti in cantina” spiegò Ernesto a Leone. “Di notte e nelle prime ore del mattino passano spesso i carabinieri. Le Autorità fasciste gli hanno chiesto di svolgere frequenti perlustrazioni ma i Militari sanno che siete tutti delle brave persone e sono al corrente che molti di voi ora vivono nascosti fuori dal paese. Ma è meglio non rischiare” concluse con un sospiro il signor Fortunato. I suoi primi due giorni la famiglia De Benedetti li trascorse al chiuso. Leone, non potendo uscire di casa per aiutare Ernesto, trascorreva il tempo su un libricino dalla copertina nera sul quale controllava in modo ossessivo i conti del negozio, sull’orlo del fallimento: ormai, per legge, gli ebrei non potevano più avere clienti cattolici, che a Pitigliano erano la maggioranza. Olga, da laboriosa casalinga, aiutava Letizia a rigovernare la casa e a cucinare. Lavorando affiancate, tra le due donne era nata una spontanea sintonia, il cui risultato quella mattina era una profumata minestra che sobbolliva in un calderone di metallo appeso nel camino. Le tre giovani sorelle erano invece annoiate e nervose. Pur sapendo che in quel periodo la loro famiglia era costretta a vivere nascosta, avrebbero voluto godere della vita di campagna. Desideravano tornare a trovare le mucche nella stalla, correre dietro alle galline, accarezzare le lunghe, morbide orecchie dei conigli ma il divieto di uscire da parte del babbo era stato categorico. Da tempo, le figlie di Leone studiavano a casa. A causa delle leggi razziali, come tutti gli studenti italiani di religione ebraica erano state costrette ad abbandonare le scuole pubbliche. In quei giorni, dopo aver terminato i compiti, per impegnare il tempo libero si dedicavano con l’aiuto della mamma a qualche facile lavoro di ricamo ma il trastullo che preferivano era aiutarsi l’una l’altra ad acconciare le lunghe trecce bionde, ornate da un nastro di velluto di diverso colore: rosso per Sara, verde per Micol e azzurro per la piccola Ada. Negli stessi colori dei nastri, le sorelle si erano fatte realizzare dalla mamma anche dei lacci in tessuto per i loro scarponcini. Solo Ada, troppo piccola per allacciarseli da sola, si era impuntata e andava in giro con le scarpe senza lacci.

Il terzo giorno, dopo aver condiviso a cena la tavola dei signori Fortunato – pane, olio buono delle loro piante di olivo, formaggio di pecora – la famiglia De Benedetti si stava preparando a malincuore a trascorrere la notte in cantina. Uscirono tutti e cinque dalla casa e si avviarono in fila indiana. Leone e Olga guidavano la fila, dietro Sara e a chiudere Micol e Ada.
Parlando sottovoce e pensando di non essere udito, Leone si rivolse alla moglie: “Domani prima dell’alba voglio portare Argo lontano, nei boschi. Non riuscirà a ritrovarci. Sara per la prima volta mi ha disobbedito. Pensa che io non me ne sia accorto ma durante la nostra prima notte nella stalla ho notato strani movimenti nella sua borsa, seguiti dai mugolii del nostro cane quando sogna. Se abbaiasse durante le perlustrazioni dei carabinieri o le ronde dei fascisti, farebbe scoprire la nostra presenza. È troppo pericoloso, per noi e per la famiglia che con generosità ci ospita”.
“Sai bene che due anni fa hai privato Sara della sua Lassie regalandola ad un contadino, perché ritenevi che giocare a lungo con la cagnolina avrebbe sottratto tempo per lo studio a nostra figlia. Le avevi raccontato che era scappata e Sara ha pianto per mesi, cercandola in tutti i vicoli del paese” rispose la moglie. “Non puoi togliergli con l’inganno anche Argo”, concluse risoluta, pur sapendo che il marito quando prendeva una decisione non cambiava mai idea.
Sara, ascoltando queste parole, sussultò. Lassie, la sua dolce Lassie, quanto le era mancata! Il suo adorato babbo non poteva aver deciso di farla soffrire così tanto. Sentì un odio profondo nascerle dentro, seguito da una dolorosa scelta di ribellione: sarebbe scappata portando Argo con sé.
Il quarto giorno il cielo tornò torvo e l’odore dell’imminente pioggia permeava l’aria. Alcuni tuoni preannunciavano un altro temporale. Le due sorelle più piccole erano intimorite mentre il volto di Sara, di solito sorridente, era contratto e gli occhi azzurri avevano assunto una sfumatura grigio antracite, che rispecchiava il suo stato d’animo.

“Cosa ti succede”? le chiese la mamma. “Sembri pensierosa”.
“Sono solo annoiata e stanca di vivere nascosta. Mi mancano la nostra casa, un letto comodo, i miei libri d’avventura” rispose Sara girandole di colpo le spalle.
Nonostante per l’adolescente le ore passassero lente, arrivò finalmente il momento di trasferirsi in cantina per la notte. Quella mattina Sara era riuscita a sottrarre dalla cucina un filone di pane e un grande pezzo di formaggio. Aveva riempito una piccola damigiana di acqua, preso una coperta e nascosto le scorte nella stalla. Ormai era determinata. Se il babbo voleva portarle via Argo – il cucciolo non sarebbe sopravvissuto da solo nei boschi – la fuga insieme era necessaria.
Il primo giorno che erano arrivati al podere Sara aveva ascoltato il signor Fortunato spiegare ai suoi genitori che dietro la casa, una volta addentrati nella macchia, c’erano molte grotte che avrebbero rappresentato in caso di bisogno un nascondiglio perfetto. Si sarebbe rifugiata lì con il suo cagnolino.
Nella cantina, tutti si erano ormai addormentati. Sara prese il sacco di iuta dove aveva nascosto le provviste e la coperta, mise Argo nella sua borsa e cercando di fare meno rumore possibile salì le scale e si ritrovò all’aperto. La pioggia era cessata e la grande luna che illuminava il cielo l’avrebbe guidata nella fuga. La ragazza si strinse nel pesante cappotto. Meno male che il babbo – che si era rivelato un bugiardo – aveva almeno il pregio di vendere buoni tessuti, pensò. Si diresse dietro la casa e con circospezione si addentrò nel bosco abitato da lecci dall’alto fusto i cui rami, privi delle foglie e delle ghiande estive, le sembravano tanti spaventosi Satàn (3) ondeggianti nel forte vento che aveva spazzato le nuvole. Man mano che avanzava tra i fitti alberi, Sara si sentiva sempre più incerta e impaurita. Il silenzio profondo della notte, rotto all’improvviso da acuti versi di uccelli sconosciuti, l’odore di marciume che esalava dalla terra intrisa di acqua rendevano l’atmosfera cupa e inquietante. Aveva sbagliato a fuggire dal podere? Ce l’avrebbe fatta da sola? Argo intanto aveva tirato fuori dalla borsa la testolina dal pelo nero e fulvo e teneva le orecchie tese all’indietro. Nervoso e in allerta, percependo la paura della sua padroncina, cominciò ad uggiolare forte.
“Buono Argo, altrimenti ci scoprono”, gli disse Sara carezzando con gesti ipnotici le orecchie del cane per tranquillizzarlo.
Finalmente si trovarono davanti all’apertura di una grotta. Sara entrò e si stese per terra in un angolo riparandosi dentro la coperta, nella quale avvolse con cura anche Argo. Sfinita dalla tensione e dalla paura, le sembrava di non riuscire a respirare. Provò a rilassarsi intonando sottovoce una canzoncina della sua infanzia che la mamma le cantava sempre per farla addormentare. Ma il sonno non arrivava. Pensò di recitare una preghiera, invocare Adonai (4) l’avrebbe aiutata. Mise una mano nella borsa per prendere il suo libro di salmi ma si accorse che non c’era. Si rese conto con angoscia che il pomeriggio precedente, dopo aver pregato, era passata a salutare le mucche nella stalla tenendo ancora il libro in mano. Doveva esserle caduto lì. Determinata come sempre, Sara cominciò a recitare a memoria e a lungo i salmi. Pian piano la voce si fece flebile, finché il sonno l’accolse compassionevole.

Alle prime luci dell’alba, una ronda di fascisti arrivò al podere dei Fortunato. Uno di loro, un certo Manlio, vide la stalla e propose di requisire una mucca.
“Entriamo anche in casa e vediamo cosa hanno da mangiare. Questi contadini si comportano da morti di fame e invece le loro case abbondano di cibo” aggiunse sprezzante Oreste, un altro fascista.
Fu il primo ad entrare nella stalla. Mentre cercava di trascinare una mucca recalcitrante, si accorse che in mezzo alla paglia spuntava un oggetto.
“E questo?” chiese. “Da quando questi zotici di contadini sanno anche leggere?”
Si chinò, prese in mano il libro e notò con sadica soddisfazione i caratteri ebraici sul frontespizio.
“Ebrei! Questi porci dei Fortunato nascondono ebrei! Perquisiamo tutto!
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Quando due giorni più tardi, pentita della tua fuga, sei tornata al podere di Ernesto e Letizia, non hai trovato più nulla. La stalla distrutta, la casa bruciata, le mucche sparite, le galline e i conigli uccisi e fatti a pezzi, abbandonati in mezzo alla polvere del piazzale. Due contadini che vivevano lì accanto ti hanno vista arrivare e pressati dalle tue insistenti domande ti hanno riferito controvoglia che i Fortunato erano stati prima picchiati con ferocia e poi arrestati dai fascisti. Qualcuno avrà fatto la spia, hanno aggiunto a disagio.
Boom, boom, boom. Il battito del tuo cuore è esploso e come un’eco ha riecheggiato lacerante nella testa. Lo sguardo è tornato dritto al piazzale e solo allora hai notato uno scarponcino. Senza lacci. Era di Ada.
“E i miei genitori? Le mie sorelline?” hai domandato con angoscia cadendo in ginocchio.
“Loro…Loro sono stati portati via. Forse al campo di Roccatederighi” ti hanno risposto i due anziani senza avere il coraggio di guardarti negli occhi.
Nei mesi successivi, dopo averli cercati ovunque, con accanimento, con disperazione, grazie al supporto di alcune associazioni ebraiche sei venuta a sapere che i tuoi genitori e le tue sorelline erano stati deportati ad Auschwitz . Ormai Leone, Olga, Micol e la piccola Ada sono solo cenere.
Il tuo Argo, un pastore tedesco – la stessa razza che le SS, le Schutz-Staffeln, utilizzavano per incutere terrore agli ebrei nei campi di concentramento – ti ha salvata. È questa la tua punizione.

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(1) Rosh Ha Shanah: il Capodanno ebraico è considerato giorno di introspezione e di rinnovamento spirituale nel quale, secondo la tradizione, il Signore esamina le azioni buone o malvagie compiute da uomini e donne nell’anno precedente.
(2) Yom Kippur: Giorno del Pentimento, il più sacro e solenne del calendario ebraico, dedicato alla preghiera e alla penitenza. Secondo la tradizione è il giorno in cui il Signore suggella il suo giudizio verso il singolo.
(3) Satan: forma ebraica per satana, diavolo.
(4) Adonai: nella cultura ebraica indica il Signore, Dio della Bibbia

 

(Racconto scritto per il corso di scrittura tenuto da Valeria Viganò)

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