IL CRISTALLO DI BEIRUT

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IL MIGLIOR RACCONTO DELLA SESSIONE MARZO/MAGGIO NEL 35° CORSO DI “SCRITTURA NARRATIVA – SCUOLA DI SCRITTURA VALERIA VIGANO’ “

Solo la caffettiera è rimasta immobile. Nel silenzio assordante che segue l’esplosione, mi rendo conto di essere stata catapultata altrove perché la legge di gravità è stata violata. Vengo sbalzata dall’altro capo della cucina contro il muro ricoperto di piastrelle in ceramica che ripetono ossessivamente il loro arabesco bianco e azzurro.

Non so per quanto tempo rimango svenuta a terra. Spalanco gli occhi prendendo in considerazione l’idea che il liquido sul braccio sinistro possa essere sangue, e che sia morta, ma è solo il caffè da riscaldare che mio padre ripone in una tazza bianca per la colazione. Alzo lo sguardo e non mi stupisco di assistere al panorama di distruzione. Mi sorprende invece la visione della moka grigia con il manico nero intatta. Ancora non so che l’oggetto ha resistito all’esplosione di duemilasettecentocinquanta tonnellate di nitrato d’ammonio.
Amal! È la voce di mio padre che mi chiama. I vetri dell’appartamento al quarto piano sono andati in frantumi e l’aria densa di terra ha invaso le stanze. Gli allarmi delle automobili parcheggiate risuonano senza sosta e, mentre aiuto mio padre ad alzarsi da terra, vengo scossa da un forte senso di vertigine. Afferro la mia borsa nera di tela e ci metto dentro i tre oggetti che reputo essenziali: i passaporti, le mie medicine e una fotografia dei miei genitori incorniciata. Sono nata a Beirut trentatré anni fa, ma non mi sono mai abituata a scappare.
Dalle finestre senza vetri vedo che la sposa sta singhiozzando appoggiata al muro. È il 4 agosto, il giorno del matrimonio di Jamila, la figlia minore dei vicini di casa. Fino a pochi minuti prima era in posa sorridente davanti al fotografo e, con mio padre accanto, osservavo dalla finestra la ragazza con cui ho trascorso molti dei miei giorni d’infanzia. Fasciata nel vestito strettissimo, sembra una bambolina di plastica.
Tutti si sono riversati nelle strade. La sala dove Jamila stava per iniziare il ricevimento del suo matrimonio è ora il rifugio del vicinato. Mio padre si unisce al gruppo per avere notizie, mentre io resto sulla soglia. Devo telefonare a Yunus. So che sta bene, ma voglio che me lo dica lui. Stringo forte la borsa al petto, come per proteggermi. Mi rendo conto di avere indosso il caftano nero ricamato che porto solo in casa e che ai piedi ho ancora le ciabatte infradito.
Interpreto la mancata risposta di Yunus come il segnale che le linee sono interrotte. Mio padre sta parlando con i genitori di Jamila. Si passa nervosamente le mani tra i pochi capelli bianchi e all’improvviso mi appare più piccolo e vecchissimo, le rughe gli disegnano sul volto una mappa più fitta. Gli accarezzo una guancia e sguscio lontano dal gruppo dopo avergli sussurrato all’orecchio un telegrafico Torno subito.
Coriandoli, penso inoltrandomi verso la strada principale. I manifesti del governo che tappezzano i muri delle vie sono stati ridotti in minuscoli brandelli di carta. Volteggiano nell’aria e mi si posano sui lunghi capelli corvini mentre compongo un’altra volta il numero di telefono da cui, neanche allora, ricevo risposta. Spedita, scelgo la via che mi permette di arrivare direttamente sul mare.
Camminando scorgo l’edificio giallo la cui soglia varco ogni venerdì alle tre e trentacinque di pomeriggio, puntuale per parlare con la mia psichiatra. La silenziosa dottoressa Al Kassir è l’unica persona cui ho raccontato del mio rapporto con Yunus. Calpesto pezzi di vetro e cemento e rivolgo lo sguardo al secondo piano, dove si trova lo studio. Sudo copiosamente nel caftano di cotone e, per la prima volta, mi rendo conto che la mia vita sarebbe potuta finire in un giorno d’agosto. Svolto a destra lasciandomi definitivamente alle spalle il quartiere e imboccando un’ampia via che mi consente di raggiungere il mare in poco tempo. La dottoressa Al Kassir alterna lunghi silenzi a domande brevissime come: “Cosa le piace della chimica?”. Avevo risposto che è la mia vocazione da quando soffro di quello che un tempo era chiamato piccolo male, una forma di epilessia che improvvisamente mi esclude dalla realtà e che i medici ormai definiscono meno poeticamente crisi di assenza. Ho scelto di affidarmi alla fisica e alle sue leggi per comprendere la malattia e la realtà dentro e intorno a me. A tredici anni, quando ebbi la prima crisi, decisi che la scienza sarebbe stato l’unico strumento con cui avrei voluto osservare la realtà. Studiavo famelicamente le regole della materia in un mondo sull’orlo del collasso, nel tentativo di scongiurarne la dissoluzione. Dopo aver vinto una borsa di studio in Italia, avevo lasciato il Libano e ottenuto il dottorato in Chimica fisica. Ero tornata a Beirut poco prima della morte di mia madre, e avrei voluto che la mia permanenza fosse stata una breve parentesi. L’assunzione come insegnante presso una scuola islamica alle spalle della moschea di Al Omari era stata una macchinazione di mio padre, vedovo, solo e preoccupato per la mia salute, per non farmi lasciare il paese. Avevo accettato il posto malvolentieri ma l’avversione si era attenuata quando avevo conosciuto Yunus, il direttore dell’istituto.
Era nato e cresciuto tra le montagne della Siria, gli occhi verdi e i capelli chiari marcavano la discendenza curda. Talvolta pensavo che più che le leggi del Corano, egli amasse la lingua araba, e che fosse musulmano solo perché la religione gli permetteva di praticare l’arte della calligrafia. La testa rivolta in alto, contemplava i versi del Corano trascritti sulle pareti della moschea Al Amin, la sua preferita. La lingua è l’unica patria che possiedo, mi aveva detto una volta elencandomi i vocaboli che testimoniavano che fosse l’idioma di un popolo nomade, senza pace, condannato ad abitare terre dai confini artificiosi.
Anche il giorno in cui ci amammo per la prima volta era scoppiata una bomba. Sedevamo sul divano di casa sua, l’aria calda della primavera entrava dalla finestra. Attoniti, ascoltavamo un’edizione straordinaria del telegiornale. Il conduttore leggeva nervosamente un freddo comunicato zeppo di inutili dettagli che non lasciava intendere cosa realmente fosse accaduto nel pomeriggio, quando in pieno centro città un’esplosione aveva ucciso decine di persone. Nervoso e confuso, si era rifugiato in cucina ad affettare una cipolla e lì lo avevo stretto a me, affondando il naso nel maglione che odorava di mare e incenso.
Attraverso Piazza dei Martiri e supero la statua inutilmente trionfante che luccica sotto il sole del tardo pomeriggio. Mi bruciano il naso e la gola, le lacrime cercano uno sfogo. Inghiottisco il pianto quando avvisto un malandato taxi blu sbucare da un vicolo. È un’apparizione surreale. Mi sbraccio e corro dietro la vettura, voglio arrivare da Yunus, e in fretta.
Il tassista ha le sembianze di mio padre, anche se i suoi lineamenti sono più asciutti. Indossa una camicia di cotone beige che potrebbe aver preso dal suo armadio e ha lo stesso sguardo quietamente disperato. Sorride come se mi conoscesse e si sporge verso il finestrino abbassato aspettando che dica qualcosa. Mi sento svuotata. La mia voce mi suona estranea mentre gli dico che devo raggiungere il quartiere del porto. Il sorriso si spegne, l’uomo commenta aspramente che lì è tutto distrutto e non c’è niente da vedere. Mi squadra dalla testa ai piedi, sono coperta di polvere e sudore, un lampo di pietà attraversa i suoi occhi. Mi fa segno di montare sull’automobile sgangherata. Scivolo sul sedile accanto al suo, stringo la borsa al petto e la puzza di sigarette e di polvere mi dà il voltastomaco.
Sulla strada a tre corsie ci siamo solo noi, l’assenza di traffico è irreale. L’uomo sembra non farci caso e racconta che stava guidando proprio lì quando la bomba è esplosa. Non lo ascolto più, la città distrutta mi scivola addosso e la lascio scorrere via da me senza opporre resistenza.
Quando l’autista rallenta sul lungomare, all’altezza che gli indico, le mie gambe sono immobili. Giaccio inerte sul sedile come la borsa di tela sulle mie ginocchia. Il porto è completamente distrutto. Il quartiere dove si trova la casa di Yunus è una macchia grigia rasa al suolo. L’uomo si mette a pregare sottovoce e io, stupita, gli faccio eco osservando il mare che incurante brilla sotto il sole.
In chimica è sempre una questione di relazioni. Una bomba esplode nel tentativo di cercare un equilibrio tra i legami deteriorati delle particelle. Una crisi epilettica avviene quando le cellule cessano di comunicare tra di loro. Il mio rapporto con Yunus era il mio equilibrio ma, come tutti i chimici sanno, l’unica forma di stabilità possibile è la morte. Corro sotto il sole bollente, verso la strada dove si trova il palazzo di Yunus. Mi arrampico sulle macerie della sua casa, perdo le infradito, le piante dei miei piedi sono completamente insanguinate, le mie mani tentano di smuovere cumuli di terra e cemento. Poi, dal mare, un puntino nero mi chiama.
Amal! Mi precipito verso la distesa d’acqua e salto dal pontile di cemento. Mi butto vestita così come sono e provo una inaspettata sensazione di piacere al contatto con l’acqua tiepida prima di trasalire: non so nuotare. Provo a stare a galla, ma non ci riesco. Tossisco, ingaggio una vana lotta con il mare. I miei polmoni si stanno riempiendo di acqua.
Qualcuno mi riporta all’improvviso in superficie e riprendo a respirare. Ha l’odore di mia madre. Una voce maschile mi incita. Brava, brava Amal, sento dire. Prendo una boccata d’aria dalla bocca, spalanco gli occhi. Mio padre mi osserva in apprensione dal bordo del letto. Sono distesa sul lenzuolo di seta e indosso il caftano, che è pulito ma zeppo di sudore. Tremo e mi guardo intorno incredula. La casa è intatta e ogni cosa è al suo posto. Mi alzo dal letto, mio padre prova a fermarmi: – Hai avuto una brutta crisi. Chiamiamo la dottoressa?
Faccio segno di no. Noto che la caffettiera è riversa sul fornello e che sul tavolino della mia camera manca la fotografia incorniciata dei miei genitori. Mi affaccio alla finestra e mio padre mi viene vicino. Ecco Jamila vestita da sposa, sorridente davanti all’obiettivo del fotografo. Sembra proprio una bambolina di plastica, penso.
Nel capannone buio affacciato sul porto un topo dal folto pelo marrone squittisce su una montagna di sacchi di juta. Abbandonati da anni, contengono piccoli cristalli ovali apparentemente innocui. Il pomeriggio del 4 agosto Ismael, fratello gemello di Yunus, schiude senza sforzo la porta in lamiera del magazzino che gli è stato indicato ed entra cercando di ignorare la puzza e il caldo torrido. Al centro della catasta sistema l’ordigno, controlla che l’esplosivo sia ben posizionato sul cumulo di nitrato di ammonio e, dopo aver premuto il tasto sul telecomando, si allontana dal capannone recitando una preghiera. Terra di infedeli, conclude tristemente. Monta sulla malconcia Volvo blu, un vecchio taxi in disuso, e fa segno al compagno al volante di fermarsi davanti a una palazzina bianca distante di qualche centinaio di metri. Al secondo piano abita suo fratello, nella stessa casa che avevano occupato insieme fino a quando Ismael, poco più che ventenne, non aveva scelto di diventare un combattente di Dio. Suona il campanello. Non ha una voce tanto diversa da allora, quando chiede chi è. Scappa, fratello mio, sussurra.
Yunus fissa il citofono in silenzio, le tempie gli pulsano di terrore. Sussultando compone il numero di Amal e fugge verso il mare.

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