Ce l’ha nel DNA, il Maestrone. È portatore sano di nostalgia, come lo è un po’ tutta quella sua generazione cresciuta col sogno di una cosa, di un’isola non trovata, di un anello che non tiene. È vecchio, ma di quella vecchiaia bella che fu di Omero e di pochi altri, quasi da subito, dai primi vagiti musicali: “Cantare il tempo andato, sarà il mio tema…”
E d’altra parte, è il primo ad ammetterlo: “Io appena giovane sono invecchiato, tu forse giovane non sei stato mai…”
E così, quasi fosse la naturale conclusione di un periplo iniziato cantando la casa sul confine della sera, il Maestrone torna a raccontare i piccoli oggetti che ingombravano le stanze di vita quotidiana neanche poi tanti anni fa: e a noi pare l’inevitabile coronamento di una galleria di rimembranze.
Ci aveva narrato il viaggio di nonno Amerigo in rotta per il nuovo mondo, la piccola città bastardo posto, aveva disegnato per noi la sua Pavana selvatica, circondata dai castagni degli Appennini, e il suono ossessivo che fa il Limentra.
Oggi, con delicata ironia, incasella minuziose descrizioni delle buone cose di pessimo gusto, a cui in fondo s’aggrappa ogni ricordo del buon tempo andato.
In ossequio ad una nostalgia che, nel momento stesso il cui la scrive su carta, è già divenuta progetto: “E nel futuro trame di presente si mischiano a brandelli di passato”…
Bello, ironico e dolce, il Dizionario delle cose perdute.
Di Francesco Guccini, ça va sans dire.