Il Dottor Sigismondo. Suppongo

 

 

Toc toc… Chi è ? Nessuna risposta.

 

Toc… toc, toc… Chi è ? Ancora nessuna risposta.

 

Toc… toc… Ebbene, chi è che bussa alla porta ?

 

Questa volta l’uomo aprì l’uscio. Apparve sulla soglia un esserino inconsueto: minuto, dimesso, un po’ curvo, piccino.

 

Chi sei tu ? … Non lo so… Devo essermi perso…

 

L’uomo al di qua della porta, imponente a confronto, quasi un gigante nella sua normale robustezza di adulto, si fece da parte, lasciò che quel cosino avanzasse.

 

Allora si accorse che le sue orecchie erano a punta, e i piedi caprini.

 

Ma non lasciavano impronte tanto era lieve e intimidito il suo passo.

Allora ? Non so, devo essermi perso… Non so dove sono, in che luogo mi trovo… Il portone giù basso era aperto: non ce la facevo più a restare di fuori, giù in strada. Troppi rumori, troppi sconosciuti sui marciapiedi affollati. Sono entrato, ho salito le scale fin qui. Ho bussato… E lei all’improvviso mi ha aperto.

 

Sì, ma non ricorda nient’altro ?

 

No… Non ricordo, non ricordo… E ho tanta paura…

 

Capisco, fece l’uomo lisciandosi la barba brizzolata e assai ben curata.

 

Aveva occhiali tondi sul naso, un sigaro corposo alle labbra. Occhi vivissimi, chiari. E non intelligenti: geniali piuttosto.

 

Capì che l’esserino di certo non si era avveduto che vi fosse di fuori una targa d’ottone che informava i passanti e i pazienti che qui lavorava un

dottore.

 

Vuole sedersi ? No, anzi, si accomodi qui, su questo divano. Mi è venuta un’idea…

 

Le dispiace se scrivo, se mi siedo qui da una parte ?

 

L’esserino era confuso, ma intelligente e assai mite. Annuì dolcemente abbozzando un sorriso sperduto, smarrito. Dove mi trovo? In che posto sono finito ? Non ricordo, non ricordo più niente…

 

Così, in quel mattino di una primavera inoltrata, nella Vienna gloriosa e ancora imperiale di un Novecento incombente sulla tronfiezza progressiva del mondo, cominciava un nuovo racconto sul demone oscuro che parla nascosto all’interno dell’uomo.

 

 

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