Da subito, il bimbo era stato diverso. Come un’isola senza alcun approdo, o insenatura, o attracco. Da solo passava ore col suo mondo di dentro. Un ingranaggio prezioso e misterioso in cui passavano e ripassavano incessantemente le sue idee e i ruminamenti.
Un fantasma. Una presenza che non voleva essere abbracciata, o toccata. Che schivava con lentezza sinuosa ogni mano in avvicinamento, sottraendosi a qualsiasi contatto come ci si sottrae a un dolore insopportabile.
Il gulag scolastico. Una tragedia annunciata. Lo vedeva soffrire come in carne viva per quell’affollamento, quel rumore. Che era un chiasso, una tortura, un inevitabile obbligo al quale partecipava opponendo un mutismo quasi totale, un distacco esistenziale, una sofferenza insostenibile.
Rientrava nella sua stanza, infine, a ritrovare il silenzio, la solitudine necessaria ad elaborare i suoi indivisibili e impronunciabili concetti.
Muto ai suoi occhi, sordo alle carezze. Lontano e irraggiungibile, incomprensibile e straziante.
Quel figlio prezioso era un biglietto per l’inferno, una porta sul nulla, un concetto astratto.
“Ma ogni tanto lo vedo guardarmi ed è come se mi vedesse davvero, mi sembra di entrare in contatto con lui, SOLO-UN-MOMENTO-DIO-TI-PREGO, fa che anche solo per momento possa capire CHI SONO, CHI SIAMO. CHI E’. Fa che lo possa accarezzare, per una volta. Tenergli le mani. Il suo abbraccio, il suo odore.”
Durava un attimo.
Poi lo vedeva tornare dentro la sua bolla. Fermo. Come pensoso, chinava la testa di lato, leggermente.
Lei continuava a sorridergli. Avrebbe continuato a sorridergli per sempre.
Per sempre.
“Dio, ti prego. Fa che sia per sempre”