IL FISCHIO E LA LUNA

La salita era faticosa.
La donna saliva lentamente la creuza assolata, in quel giugno arido e polveroso. Gli alti muri che la delimitavano non impedivano ai profumi intensi delle piante nascoste di liberare nell’aria rovente la loro dolcezza sensuale. In alto, tra le pietre, mosaici di fiori rampicanti parevano protesi a spiare sia gli orti celati che i rari passanti. In basso, tra i grigi sassi marini, opachi di sale e di anni, e tra i larghi e bassi gradini di mattoni della creuza, consumati al centro dai passi di diverse generazioni, guizzavano lucertole agili e beffarde, mentre i gechi, nascosti nelle fessure delle muraglie, si immobilizzavano prudenti. Controluce brillava la scia argentea di qualche lumaca bavosa, di cui, talora, la spirale di un guscio fragile e vuoto testimoniava la fine.
La luce era abbagliante.
Una parete bianca di gelsomini odorosi catturava la vista, dopo l’olfatto. La donna si chiese se davvero il sole potesse rifrangersi sui piccoli petali candidi, per ferire di più i suoi occhi velati di calore e sfinimento. Mentre sostava per riflettere e riprendere un soffio di quel fiato che sempre più spesso le mancava, udì un fischio. “Un merlo”, pensò subito, forse per l’acutezza melodiosa di quella nota sospesa. Un breve silenzio, poi il fischio si levò nuovamente. Era più prolungato, adesso, più insistente. Più imperioso, si sarebbe detto. Benché la curiosità mordesse, decise di proseguire oltre. Con un sospiro si incamminò di nuovo, ma non aveva neppure poggiato il piede sullo scalino successivo che il fischio si sentì ancora, più alto, più stridulo. Più disperato, si sarebbe pensato. “Un uccello in gabbia”, ipotizzò istintivamente, pur ammettendo che era un suono strano, diverso da altri canti di uccelli che aveva udito in precedenza. “Forse non è un uccello”, considerò, riflettendo ulteriormente, arrestando il suo cammino.
Il sole era inesorabile.
Sentiva i vestiti appiccicati alla pelle, il sudore colare copioso sulla fronte, bruciare salino negli occhi. Perché rimanere fermi sotto i raggi infuocati per ascoltare qualcosa di estraneo, che il buon senso suggeriva di ignorare? Il fischio urlò per la quarta volta il suo richiamo. Da dove proveniva? “Questa è la prima cosa da appurare”, si disse. Alzò lo sguardo, ma solo i cocci di vetro della muraglia, attraversati dal sole o coperti da fiori e foglie, delimitavano il confine tra la creuza e l’azzurro sfacciato del cielo. Tuttavia, poco più in là, seminascosto quasi con pudicizia da un rigoglioso rampicante, un cancelletto dalle strette lance di ferro arrugginito offriva un’insperata visione – seppure parziale – dell’oltre.
L’orto era abbandonato.
Anche il giardino sembrava oramai una disordinata rivincita della natura sull’uomo. Non c’erano più aiuole, ma i cespugli, i fiori e i rovi facevano tutt’uno con gli alberi dei limoni, che ancora tendevano orgogliosi i propri rami al cielo. Appoggiandosi al cancello, la donna si accorse che cedeva al suo peso, aprendosi in un cigolio che quasi sembrò invitare il fischio a rispondergli. E infatti il fischio rispose, come rinvigorito, come ripreso, riacciuffato da una speranza creduta vana e ora più vicina e reale. Decise di entrare, con lo stupore consapevole di un gesto sconosciuto a sé. Districò il suo avanzare dall’erba alta e secca. Si avvicinò a una casa bassa, le poche persiane rimaste con i listelli staccati, l’intonaco bianco scrostato, la porta divelta dai cardini, ma appoggiata al muro accanto all’apertura. Un raggio entrava nel buio dell’ingresso e un cuneo di luce illuminava un pulviscolo di terra e moscerini.
Il fischio era sempre più forte.
Aveva il cuore in gola, ma sapeva di dovere entrare ed entrò. Subito non vide bene: gli occhi stentavano ad adattarsi, dopo il bagliore esterno. Poi, dal buio, iniziò ad emergere una luna piena. Anzi, no: una sferica lanterna di carta di riso. Ma nemmeno: era un viso! Un viso pallidissimo, quasi polveroso, un’ombra bianca e tonda, con gli occhi chiusi e le labbra strette a cuore, spinte avanti come per dare un bacio. Da quell’ombra, da quelle labbra, partiva il fischio che, anche ora, continuava dolce, insistente, implorante.
Adesso vedeva bene.
Una figura pesante di donna, vestita di stracci, appoggiava la sua infinita stanchezza a una sedia, posta in mezzo a una stanza che un tempo doveva essere stata una cucina. Si intuivano le sagome di una vecchia stufa, di un tavolo, di una credenza. E poi scatole, cocci, oggetti ingombranti e minutaglie smarrite nella polvere e tra le ragnatele. Nel silenzio, fruscii veloci di qualche animale (topi? lucertole?) e quel fischio, che, ora lo sentiva bene, era intervallato da sospiri e respiri affannati. “Sono qui”, disse. Il fischio cessò. Il viso di luna si rattrappì in una specie di sorriso. Provò ad articolare qualche parola, ma uscì solo un gorgoglio. “Sono qui”, ripeté la donna, “Ti aiuterò, stai tranquilla”. Prese il cellulare dalla borsa e chiamò il 112, spiegando brevemente la situazione. Era un paesino di poche anime e i soccorsi non tardarono ad arrivare.
Qualche ora dopo era tutto finito.
Il viso di luna riposava quieto sul cuscino di un reparto ospedaliero. Dopo le prime necessarie cure, lavata e rifocillata, quella spettrale apparizione si era rivelata essere una persona sopraffatta dal dolore di vicissitudini familiari ed economiche. La solitudine e il disagio l’avevano portata a vivere in una sorta di eremitaggio e la sua esistenza era stata col tempo dimenticata. Quel pomeriggio era stata colta da un malore di cui aveva compreso la gravità. Non riuscendo né a muoversi né a gridare aiuto, si era ricordata di quando suo nonno, da bambina, le aveva insegnato a fischiare. Quel fischio e una donna che non sapeva cosa fosse l’indifferenza, le avevano salvato la vita. Adesso poteva riposare. (Aglaja)

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