Il futuro è già qui: The square

Benvenuti al cinema, signori. Accomodatevi sulla poltrona e accingetevi a vivere il viaggio straniante, stralunato, inquietante di “The Square”. O forse sarebbe meglio dire che il giovane regista svedese Ostlund, vincitore della Palma d’oro di Cannes con questo film, ci attira subdolamente, fin dalle prime inquadrature, in un’avventura sempre una riga sopra al limite della normalità.
In una Stoccolma opulenta ma immacolata e minimale come un museo moderno, dove anche i poveri e gli immigrati sembrano le comparse di una gigantesca opera d’arte vivente, il bel Christian, raffinato direttore di museo, stremato dal politically correct, ci porta con sé in una spirale costruita come un quadro di Escher, piena di scale che non portano da nessuna parte.
Il furto di un telefono, il marketing-choc di una mostra importante, una storia di sesso senza capo né coda, rapporti umani al limite della lucida follia, un teatro dell’assurdo in bilico tra realtà e rappresentazione artistica estrema. Come nella memorabile scena dell’uomo-scimmia, eversore della festa lussuosa (non sapremo mai se nel preordinato tentativo di èpater le bourgeois o realmente fuori controllo), che sembra prefigurare il ritorno della violenza primitiva a governare il nostro futuro prossimo.
Chi è Christian se non il simbolo occidentale del terzo millennio, l’uomo costretto a mantenere il suo aplomb sotto il bombardamento, sottile ma costante, di una comunicazione ossessiva, al limite della follia e infine vinto, messo nell’angolo da un livello di tensione emotiva diventato ormai insopportabile?
L’ordinaria vita di Christian si snocciola sullo schermo ma la comprensione, il senso ultimo di ogni episodio viene ribaltato o, addirittura sadicamente negato al malcapitato spettatore. Il quale, proprio nel momento in cui è convinto di essere entrato nel quadrato virtuoso, di aver identificato la giusta chiave di lettura per decodificare la storia, viene ricondotto fuori dal seminato da un particolare fuori fuoco, un elemento di disturbo, visuale o sonoro, che rovescia impietosamente il tavolino e il castello di carte pazientemente costruito fino a quel momento.
Si ripensa a Buñuel, a Ferreri, al cinema provocatorio degli anni settanta, perfino a una versione nordica e già postmoderna del Jep Gambardella di Sorrentino.
Il senso è, probabilmente, che è inutile cercare un senso. The Square ci dice che la società occidentale, in particolare quella europea di oggi, non ha più un centro, solo una serie di vicoli ciechi che noi, poveri individui smarriti, siamo costretti a imboccare per sopravvivere giorno dopo giorno, accontentandoci del ricordo di sogni ormai lontani.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto