Il gatto a sorpresa

Non avevano mai ammazzato un gatto. Non avevano mai ammazzato nulla, in verità, a parte qualche insetto. Ma lì c’erano gatti, tanti gatti, solo gatti. E loro due avevano fame. C’erano gatti grassi, gatti snelli, gatti magri. Avrebbero ammazzato uno di quelli grassi e l’avrebbero cotto in padella, con la polenta, oppure in salmì. Ma polenta non ne avevano, e nemmeno la padella. L’avrebbero spellato, infilato su uno stecco e cotto così, alla meglio, sul fuocherello che accendevano ogni sera, per scaldarsi. Già ne sentivano il sapore in bocca. Anche se non sapevano che sapore avesse un gatto. Ciascuno se lo immaginava a modo suo. Dolce, piccante, agro. Ma anche tenero o nervoso, con lunghe strisce di grasso bianco che si sarebbero sciolte sulle fiamme, oppure magro, tanto da diventare duro alla cottura. Con la pelle cos’avrebbero fatto? Niente. L’avrebbero buttata, come tutte le interiora. Quelle o le mangiavi crude o ci voleva davvero la padella, e la roba cruda a loro non piaceva. Così si misero in caccia. Individuarono un gattone bianco e nero – più nero che bianco in verita – e lentamente gli si misero dietro. Nascondendosi dietro sassi e rovine lo videro arrivare alla sua tana. Lui entrò. Loro lo seguirono. E qui li aspettava la sorpresa. Non era una tana, ma una cucina. Una pietra rotolò alle loro spalle e chiuse l’apertura. Affondarono nel buio.

Poi si accese una luce, una torcia. Spalancarono gli occhi e lo videro. Aveva un occhio solo.

«Aspettavo Nessuno» disse loro «dovrò accontentarmi di voi due.»

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