L’avevamo battezzato Mollicone, il bel gattone che si aggirava nelle viette attorno a piazza Giulio Cesare con piglio da ras del quartiere. All’aspetto era un nobile persiano grigio dal soffice mantello quasi perfetto, non fosse stato per quelle righe proletarie da tigrato comune europeo.
Si era presentato il giorno in cui, mia madre in testa, la famiglia al completo saliva la scala esterna della villetta di via Pompeo per prenderne possesso. Sfrecciando sui gradini e tra le nostre gambe come un fumogeno si ri-materializzò in un mulinello peloso davanti al portone in tutta la sua piccola maestà, mentre la mamma esclamava, tra il finto indignato e il divertito, “Ma questo gatto non penserà di abitare da noi?”
Quella che aveva scherzosamente pronunciato la mamma era in effetti una profezia a metà: quel gatto quasi-persiano aveva deciso di diventare un quasi-membro part-time della famiglia, secondo gli imperscrutabili desideri, tempi e moti della sua anima felina.
E così è stato.
Da quel momento in poi Mollicone entrava, restava, lappava un po’ di latte (che non era ancora tabù), si faceva coccolare, si rotolava qui e là, poi a un tratto diventava impaziente e si metteva davanti al portoncino sul retro frustando l’aria con la coda bassa a mo’ di metronomo finché qualcuno non glielo apriva; allora correva giù nel giardino, poi, appiattendosi come un foglio, sguisciava sotto la cancellata che ci separava dal vicino e di lì si dileguava.
Il babbo si divertiva a stupire gli amici con un test: a qualunque ora della sera rientrasse, nel denso nebbione color antracite, nei coni di luce gialla dei fari della sua Fiat 1900, si parava con postura statuaria e regale il Mollicone. Come faceva a trovarsi sempre lì al posto giusto e al momento giusto?
I gatti, è noto, sanno riconoscere in anticipo “la voce del padrone” dal rumore dell’automobile, tant’è che sono già pronti e miagolanti persino dietro la porta dell’ascensore. Ma sono gatti di casa che vivono felici e contenti tra l’appartamento e il pianerottolo, non degli irrequieti girovaghi avventurieri che spaziano in un vasto territorio senza seguire alcuna routine come il Nostro.
Scoprimmo mesi dopo con grande stupore che lungi dall’essere un nobile decaduto senza tetto, teneva famiglia, una bella, grande famiglia: la sua signora pure persiana e un paio di marmocchi, tutti grigi, presso un “padrone” (altro termine non ancora tabù) autenticamente liberale che aveva anche un cane e una scimmietta, nella villa di fronte. Era insomma amato, nutrito, accudito tra mille confort privilegi. Non si capisce allora cosa se ne facesse di una seconda famiglia, e perché proprio della nostra.
Ma il più straordinario dei suoi poteri si sarebbe rivelato più tardi nel gelido inverno del… quando alla sua preferita, la mamma, si scatenò all’improvviso la più tremenda delle crisi del mal di testa di cui soffriva a quel tempo. In tutta la casa addobbata per il Natale, con gli LP più consoni all’atmosfera impilati accanto al giradischi, di colpo non doveva più volare una mosca e intorno al letto dove lei giaceva immobile nessuno poteva avvicinarsi.
Tranne Mollicone, con le sue zampe di velluto, le good vibes delle fusa e delle vibrisse, il flessuoso corpicino quasi senza peso, che lei accoglieva sul suo cuore e fin sotto la gola sorridendo appena. Forse sentiva, sapeva, grazie allo stesso genere di sesto senso che aveva in comune con lui, che, a differenza della pericolosa droga a base di segale cornuta che assumeva per attenuare solo temporaneamente le fitte lancinanti al cervello, il puro amore di quella creatura l’avrebbe guarita per sempre.
E così è stato.