Il gelsomino matto è quel bacio

Era  l’anno del mio esame di maturità.

Mia madre, la mia  tempestosa, spaventosa, ma anche amorevole madre, era andata con una amica da Santa Rita, pio rituale della laica Bologna.

Avevano preso le rose benedette e le avevano portate alle zie, le mitiche zie di zia Oberdan, nella casa con il grande terrazzo sui tetti – anche quella casa mi é stata strappata.

Io studiavo, credo.
Non ricordo nulla di quel che successe, prima di ritrovarmi immersa in quel cielo stellato di gelsomini matti, consolata del loro profumo.

A casa delle zie c’era il loro fratello.
“Signorino” da sempre; il piccolo, attaccato alle gonne materne e alle sorelle signorine anche loro.

Via Oberdan, porto sicuro, rifugio affettuoso di tutti i nipoti e e di tutti loro amici.

Lo zio aveva la sua camera, il letto singolo, la poltrona, l’acqua di Colonia, ascoltando musica classica, leggendo Proust e discettando di teatro e di cinema, di danza e di poesia.

D’estate, in vacanza, andava in spiaggia, unico di una famiglia che preferiva gli scogli e ci aggiornava sui pettegolezzi del villaggio pugliese delle nostre radici.

I suoi racconti coloravano le serate, sul terrazzo, tra uno scopone scientifico, una canzone napoletana e un quiz di cinema: in palio, “castelli in Normandia”.

Poi non lesse più, finiti i racconti; finita la musica, finiti i castelli.

Quella primavera mi mandava dei brani da ascoltare, per la mia educazione musicale, diceva.

Mi parlava di Ciaikovsky, dei languori segreti – del musicista, ma suoi.

Mi aveva fatto registrare l’Adagietto, ma solo quello (“non ascoltare il resto: registati l’Adagietto”)
Diceva che per Mahler non ero pronta: ero troppo giovane.

Non ricordo che successe quella sera.

Ricordo solo che mia madre disse che erano all’ospedale, perché lo zio stava male.
Io amavo quello zio colto e ironico.

Mi rivedo in camicia da notte sul terrazzo di Bologna, sopraffatta da quell’immenso profumo, in un turbine di stelline bianche.

Pregavo.

Il giorno dopo, a scuola, piangevo nel corridoio con l’insegnante di Storia dell’Arte, la Wanda, amica delle zie dei tempi felici; per me, la “Lavanda”, da sempre.

Ho saputo molti anni dopo, che cosa successe veramente quella sera.

Mia madre mi passò in mano, con la sua classica, inconsapevole, crudeltà, il biglietto bianco.

Aveva usato la matita rossa e blu che usava per il suo lavoro, lo zio.

L’ultima cosa che aveva scritto era “P.S. un bacione a Nicoletta”.

E per me, il gelsomino matto é da sempre quel bacio.

 

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