“Diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza. Ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire”.
E’ l’ingresso in manicomio per Alda Merini. Tra le pagine del suo libro “L’altra verità” si condensa l’orrore vissuto nei lunghi anni – dieci – trascorsi in quel carcere per innocenti dove l’umanità soccombe sotto il peso di trattamenti farmacologici distruttivi il cui culmine è l’elettroshock.
Alda patisce in modo del tutto consapevole il tradimento di chi avrebbe dovuta amarla: è il marito a farla ricoverare.
In quegli stessi anni non sarà la sola a subire questo trattamento. Il manicomio è una liberazione da coniugi o parenti sgraditi “pulita”, che trova il favore della legge.
Impossibile riaffacciarsi alla vita senza portare per sempre lacerazioni nell’anima, ma persino in quella geenna la potenza creativa di Alda emerge. Scriverà poesie per i suoi compagni di sofferenze, e un nuovo sfortunato amore si farà spazio tra quelle mura asfittiche.
Il libro non è solo la descrizione di un incubo. È anche la vivida rappresentazione della forza di una donna che solo una cosa non ha saputo fare: arrendersi.
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