All’alba. D’inverno. Il mare piatto e incolore di Rimini assomiglia al deserto. All’orizzonte sagome di nebbia. A volte il lampeggiare di una luce. La presenza intuita di qualcosa. Per arrivare a guardare più lontano si costruiscono castelli di sabbia. Dallo spalto più alto di un’irreale Fortezza Bastiani si osserva il movimento di una cresta bianca. Un’onda. Un cavallo. Un fantasma. Più in là ancora, c’è il niente. Valerio Zurlini ha guardato quel mare fin da piccolo. Nel 1976, quando esce Il deserto dei Tartari, ha cinquant’anni. Da sopravvivere gliene restano altri sei, ma quello sarà il suo ultimo film. In ventidue anni – a partire dal ’54 – ne ha diretti solamente una decina. Sono film lontani dal neorealismo e dalla commedia all’italiana, vicini alle atmosfere della nouvelle vague. Giocati sul non detto, l’interiorità, il corteggiamento della morte. Due di essi, Estate violenta e La prima notte di quiete, sono prologhi al capitolo finale. Uno si svolge a Riccione, l’altro a Rimini. Sulla riva del mare-deserto che i protagonisti, Jean-Louis Trintignant e Alain Delon, scrutano in attesa di una rivelazione. Il deserto dei Tartari è il fuori campo delle loro storie, il riassunto di ciò che Zurlini ha raccontato fino a quel momento. Un uomo (Jacques Perrin). Un deserto. Una fortezza di sabbia indurita. Uomini in divisa che spiano nel silenzio alla ricerca di una rivelazione. Sagome scure nella foschia dell’orizzonte e, più in là ancora, il niente.
Valerio Zurlini
Bologna, 19 marzo 1926 – Verona, 26 ottobre 1982