Il mondo è rotondo

Monologo teatrale di Enzo Costa

Quando ero giovane (perché non sembra, ma c’è stato un tempo in cui io ero giovane, molti erano giovani, vi dirò di più, anche se non mi crederete: questo paese era giovane, compresi i vecchi, persino qualche democristiano, tutti, donne e uomini, sani e malati, ricchi e poveri, erano giovani, non perché avessero pochi anni, e nemmeno perché guardassero al futuro, ma perché sapevano che il futuro c’era, sapevano che sarebbe stato meglio del presente, e molto molto meglio del passato, era un futuro meraviglioso, quel futuro, non ci sono più i futuri di una volta, i gerundi, i participi presenti e i trapassati remoti sono sempre uguali, ma i futuri, signora mia, quei bei futuri fragranti di una volta, mi dica lei dove li trova, ormai?). Quando ero giovane, dicevo, anche il calcio era giovane, anche se i calciatori nelle figurine mi sembravano vecchissimi, Gigi Riva era più vecchio di mio zio, per fare un esempio, figuratevi Pizzaballa e Niccolai che sicuramente avevano degli zii ben più giovani di loro, Ricciotti Greatti poi, che voi non ricorderete ma vi assicuro esisteva e non era uno dei mille di Garibaldi (almeno credo), beh, lui, Ricciotti Greatti, che giocava nel Cagliari, dalla faccia e dal nome era coetaneo di suo nonno (che magari, lui sì, era davvero uno dei mille di Garibaldi, e sbarcò a Marsala fluidificando sulla fascia destra). Ma, dicevo, il calcio era giovane, così giovane che non faceva posticipi, che è una roba da vecchi, rinviare per calcolo, per convenienza, una cosa bella, che fa divertire, che fa godere, perché così facendo ci si guadagna, se non è cinismo da zombie, questo, se non è aridità da anime morte, cos’è? Ma non voglio fare un discorso nostalgico sul calcio, e sulle belle care figurine di pessimo gusto di una volta, perché non voglio sembrare Veltroni, che già quella è una cosa da vecchi, ma in fondo poi, a ben pensarci, anche fare le battute su Veltroni è una cosa da vecchi, le fa pure Veltroni. No, voglio essere onesto: non voglio fare un discorso nostalgico sul calcio, e su tutto il resto, perché sono così vecchio, siamo così vecchi, che non abbiamo più l’età per farlo. Voglio semplicemente parlare di come era il calcio, e di come era un po’ di tutto il resto, per il gusto di farlo. Parlare col minimo di emotività e il massimo di obiettività possibili di quello che avevano, il calcio e un po’ di tutto il resto, di diverso da oggi. La principale differenza del calcio, secondo me, è che in serie A, come in tutte le altre serie, si adoperava un pallone solo. Se il pallone usciva dal campo, la partita riprendeva solo quando il pallone, quel pallone, veniva recuperato. Non era una regola, quella dell’unicità del pallone. Era un dogma: “Non avrete altro pallone al di fuori di me”. Un tabù inviolabile: ricordo minuti e minuti, interi quarti d’ora di partite interrotte prima che ricomparisse l’unico pallone degno di essere preso a calci. Perché direttamente proporzionali all’adesione di massa a quel monoteismo sferico erano i tempi biblici del recupero della divinità smarrita. Chissà dove finiva, al ventisettesimo del primo tempo, o al trentaduesimo della ripresa, il pallone (altro che le anatre del Central Park d’inverno!). A volte, certo, finiva in tribuna, nelle curve, che allora forse si chiamavano già curve, ma erano come più dritte, meno contorte, meno distorte, dove veniva sequestrato da uno spettatore, non so se un feticista, un collezionista di palloni usati o un antenato dell’inventore di e-bay, che lo abbrancava con inusitata ferocia infantile rifiutandosi di ributtarlo in campo fino a quando, con una sofisticatissima operazione di intelligence, un nucleo specializzato di vicini di spalti lo immobilizzava, gli fregava il pallone e lo lanciava ai giocatori sottostanti. Che fino a quel momento, per minuti e minuti, per interi quarti d’ora, avevano atteso pazienti il lento lieto fine: non c’erano alternative, non avevano altro pallone al di fuori di quello. Altre volte, invece, il pallone spariva proprio, uscendo dal campo al livello del terreno di gioco, e in un istante, zac, si smaterializzava, senza una spiegazione plausibile, senza una logica scientifica: anche quello, per quanto piccolo, un altro dei tanti, troppi misteri d’Italia. Ma a ben pensarci, non mi importa sapere se imboccasse una specie di buco nero, un cunicolo quasi invisibile, che lo portava in un tunnel nel sottosuolo dello stadio, dal quale, attraverso una botola segreta, sbucava in un oratorio di Belluno, sulla spiaggia di Cesenatico o in un rifugio sulla Maiella. Mi importa che, fino a quando non ne veniva decretata la scomparsa definitiva, l’unico titolare della delega al suo ritrovamento fosse il raccattapalle. Un ragazzetto inerme dal potere enorme. Secondo come stava girando la partita, lui, che era gentilmente offerto dalla squadra di casa, decideva se cercarlo sul serio, se inseguirlo davvero, il pallone sparito, o se fingere di farlo. Se la squadra di casa stava vincendo, era capace di tramutarsi in falso invalido, pur di non vedere il pallone rotolato a un passo da lui, pur di non fiondarsi a recuperarlo. Se invece stava perdendo, correva a prenderlo e a ributtarlo in campo, più veloce, scattante, fulmineo di Ghedini nel partorire una legge ad personam. In caso di pareggio, i suoi tempi di reazione dipendevano da tante cose, non ultima il suo umore di quel giorno. Ma quello che conta è che allora il calcio era fatto così: un solo pallone (rimpiazzabile solo in caso di sua acclarata, certificata sparizione definitiva) gestito da un solo (o al massimo da un paio, tre, quattro) raccattapalle. Superfluo dire che oggi è un’altra storia, che appena il pallone va fuori dal campo, anche di pochi centimetri, qualche volta pure quando non esce del tutto, già c’è un altro pallone che rimbalza sul terreno di gioco, che ogni stadio, a bordo campo, è presidiato da una batteria infinita di palloni seriali, tutti uguali, pronti a scendere in campo appena un loro collega ne esce, che a volte tanta è la fretta che in campo rotolano più palloni, fino a quando l’arbitro o chi per lui non decide quale sia il pallone giusto e quello sbagliato, che non si concepisce minimamente l’idea che una partita abbia un pallone particolare, quel pallone particolare, così come non si concepiscono pause, attese, sospensioni, tempi morti, gestiti per di più da furbi e capricciosi ragazzetti inermi. Si potrebbe dire, come ci viene da pensare, che quello era sport, libertà, passione, e questo industria, mercato, omologazione, all’ennesima potenza in occasione dei mondiali. E si potrebbe dire che, per di più, magari quegli infiniti palloni per il nostro calcio industriale e televisivo sono cuciti dalle mani di bimbi di un altro mondo, povero, diseredato, sfruttato. Ma forse pensarlo e dirlo, senza pensare e dire altro, e pensarlo e dirlo così, con amaro e rassegnato disincanto, è proprio il segno di come siamo vecchi. Fossimo giovani, vedremmo anche dell’altro: che quei bimbi di un altro mondo non sono così diversi dai ragazzetti inermi che quando eravamo giovani gestivano l’unico pallone della partita. Come e più di loro, sono fragili e fortissimi: lavorano duramente, in condizioni terrificanti, come da noi nemmeno gli adulti che fanno i lavori più umili e pesanti, come nemmeno gli immigrati che non vediamo. Ma proprio per questo hanno sguardi caldi e intensi, pieni di voglia di riscatto, di ansia di liberazione, di fame di vita, di determinazione e consapevolezza. Sopportano l’insopportabile sapendo, sentendo, che hanno ragione, e che per questo, piano piano, ce la faranno a liberarsi, ad abitare un mondo più giusto, a costruirsi un futuro migliore. Fossimo giovani, vedremmo che c’è chi è giovane perché, malgrado tutto, vede per sé un futuro migliore del presente. Vedremmo quei ragazzetti tornati finalmente a casa dopo una giornata di durissimo lavoro: sognando ad occhi aperti come noi non facciamo più, divorati dalla stanchezza e dalla speranza, danno quattro calci ad un unico, meraviglioso pallone.

Enzo Costa (1964-2014)

Grazie ad Aglaja Ivanovna Epancina

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