Coming out: mi sono cibata, nella mia vita, svariate volte di carne di una varietà di mammifero perissodattilo. Carne equina, insomma.
Sono barese, e il pasto tradizionale della domenica è rappresentato da pasta al sugo e “brasciole di cavallo” che niente hanno a che vedere con le assonanti braciole.
Si tratta di involtini di carne, piuttosto grandi, cotti nel sugo, ripieni di aglio, prezzemolo e formaggio (versione base), saltati nel vino, poi cotti a fiamma lentissima, per tradizione tenuti insieme da un filo. Normalissimo filo da imbastitura.
Naturalmente non trufferei nessuno spacciando per manzo un ripieno sia pur parziale di carne equina, soprattutto se vi fosse il rischio di carne non idonea, per condizioni di allevamento, all’alimentazione umana.
Però. Sembra un déjà vu. Fino a quindici anni fa, un pugliese sottaceva la circostanza di amare il pesce crudo. Il verbo amare non illustra con precisione il connubio di salivazione e sdilinquimento che molti pugliesi sperimentano davanti a un vassoio di crudité di mare. Eravamo barbari, finché il sushi è diventato di moda; certo si tratta di una variante nella preparazione di pesce crudo leggermente diversa, ma egualmente privo di qualsivoglia forma di cottura. Un momento di liberazione e orgoglio pugliese.
Da allora tutti a dire «Amo il sushi, lo compro, lo consumo tutte le settimane, lo preparo, lo do ai miei bambini, non posso farne a meno». I pugliesi pescecrudofagi sono diventati improvvisamente trendy.
Ora, siamo ripiombati nel medioevo alimentare, noi mangiatori di cavalli.